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venerdì 1 agosto 2014

Recensione: Big Ups - EIGHTEEN HOURS OF STATIC

Big Ups - EIGHTEEN HOURS OF STATIC (2014, Tough Love / Dead Labour)



#punk #hardcore #posthardcore








Del post-hardcore, nella sua accezione meramente emotiva e musicale, non ci stancheremo mai, specie se fatto come Cristo comanda. Succede così che quando scopri che i Big Ups, giovane formazione di Brooklyn (Brendan Finn (batteria), Joe Galarraga (voce), Amar Lal (chitarra), Carlos Salguero (basso)) sposano senza mezzi termini, in questo loro disco d’esordio, Eighteen Hours of Static, la causa di Fugazi, Shellac, Jesus Lizard, Faraquet, Lungfish, Quicksand e così via, niente risulta stantio o freddamente preconfezionato, perché niente suona come mera replica e tutto sembra far pensare ad una continuazione, ad un proseguimento,  all'aggiunta del proprio contributo, unico e distinguibile, a qualcosa che ha dato tanto e continuerà a dare tanto alla musica.




Parte Body Parts e sembra che, lo dico seriamente, non hai bisogno di nient’altro al mondo. 2:27 tirati fino alla morte. Un basso che pulsa nelle orecchie come quando ai concerti ti dirigi, o semplicemente ci finisci, sotto il palco, sotto la cassa che pompa in modo ignorante pulsazioni malsane, sporche, gracchianti ma tonde. Si resta ipnotizzati, parte l’estasi e ci si chiede da quanto tempo non si ascoltasse qualcosa del genere. Poi urla disperate ma vestite d’armonia. Batteria scarna ma potentissima. Un capolavoro. Potrebbe bastare anche solo questa prima emozione per riprendere fiato, staccare tutto e correre dall’amico di turno e godere assieme del brivido unico che il cervello collegato alle tue orecchie già martoriate ti sta regalando. Invece no. Hanno appena cominciato.




L’impressione è di essere saliti su di un’auto scassata che sta per intraprendere una folle corsa senza apparenti coordinate. 11 brani che in una sola occasione superano i tre minuti e che un paio di volte stanno sotto i due. Così quando pensi che Grin (il secondo miglior pezzo dell’album) sia destinata a lenta marcia metallica alla Shellac, con la chitarra che sembra suonata da Albini in persona, esplode la vena più veloce e punk della band, per poi ritornare nel lento perimetro della danza plumbea alla Swans.
Goes black è una mitragliata tesa di rabbia e desolazione giovanile bollita nel magma di un basso veloce e caparbio e fatta a fette dalle lame della chitarra elettrica appena affilata. Con Justice  l’hardcore annusa ora il funk ora il metal ora il post-punk (apparentemente) scanzonato dei Gang of Four. Wool (altro pezzo indispensabile del disco) potrebbe vincere nella categoria miglior momento pop del disco, quasi degli Slint goes Audioslave, cosa che a pensarci bene potrebbe pure trovare sintesi nel pensiero Fugazi.  Se Tmi e anche un po’ la conclusiva Fine Line sono sempre gli Slint, quelli di Tweez stavolta, Little kid e Atheist Help-self sono i Black Flag, contornati ora da ritmi lenti e rimbombanti ora da pure deflagrazioni di taglientissime chitarre punk. Da segnalare ancora Disposer con il suo accattivante dub-grunge e Fresh meat che non avrebbe sfigurato neanche in Bleach.





Big Ups, Eighteen Hours of Static, una rabbia vera, una devozione pura, l’abilità innata nel pescare ancora a piene mani nel movimento hardcore e post-hardcore per dare a vecchie emozioni un sapore nuovo, con nuove canzoni che continuano un percorso che sembra non voler mai porre la parola fine alla sua inesauribile energia. Senza paura di fare i revivalisti e con il piglio di chi ti fa pensare, anche solo per un attimo, che il post-hardcore lo stanno vivendo e suonando loro, ora, per la prima volta.

Il 2014, per quanto mi riguarda, è l’anno del ritorno del punk/hardcore/post-hardcore ai massimi livelli. Oltre agli abbondantemente (e giustamente) celebrati Cloud Nothings, White Lung, Parquet Courts bisogna assolutamente considerare questi Big Ups. Potrei fermarmi anche qui nella mia costante ricerca di buona musica, a meno che qualcun altro sappia fare di meglio. Facciamo così. Avvisatemi solo se altri arriveranno a questi livelli, o giù di lì.

martedì 8 luglio 2014

GIRO DI BOA: La classifica dei 50 migliori dischi del 2014 (so far)

Quest'anno provo a tirare le somme già a metà percorso. Perché? Perché no! I primi mesi del 2014 sono stati veramente duri, le cose belle stentavano ad arrivare, ma con il passare dei giorni, pian pianino, son venute fuori. Questa, a mio modesto avviso, la pagella di fine semestre della musica uscita quest'anno e finora ascoltata. Non si escludono quindi stravolgimenti, come non si escludono nuovi ingressi, nella classifica di fine anno, di album già ad oggi rilasciati ma che non ho ancora avuto modo e tempo di ascoltare. Per voi. Buone vacanze!
                                              Franz








50.  THE NOTHWIST - CLOSE TO THE GLASS
49.  FU MANCHU - GIGANTOID
48.  WAR ON DRUGS - LOST IN THE DREAM
47.  EAGULLS - EAUGULLS
46.  THIRD COAST KINGS - WEST GRAND BOULEVARD
45.  MONO TOWN - IN THE EYE OF THE STORM
44.  ALTRE DI B (ITA) - SPORT
43.  BUD SPENCER BLUES EXPLOSION (ITA) - BSB3
42.  MANAGEMENT DEL DOLORE POST OPERATORIO (ITA) - MCMAO
41.  ANTHONY JOSEPH - TIME

40. TRUST - JOYLAND
39. LANA DEL REY - ULTRAVIOLENCE
38. HOW TO DRESS WELL - WHAT IS THIS HEART?
37. CALIBRO 35 - SOGNI DI GLORIA (ITA)
36. YAABA FUNK - MY VOTE DEY COUNT
35. THE HORRORS - LUMINOUS
34. HEARTBREAKS - WE MAY YET STAND A CHANCE
33. GRANDMA SPAROW - GRANDMA SPARROW & HIS PIDDLETRACTOR ORCHESTRA
 32. EELS - THE CAUTIONARY TALES OF MARK OLIVER EVERETT
 31. MAJAKOVICH (ITA) - IL PRIMO DISCO ERA MEGLIO


30. FAR FROM ALASKA - MODEHUMAN
29. BAND OF SKULLS - HIMALAYAN
28. JAMIE SAFT - THE NEW STANDARD
27. RADIO MOSCOW - MAGICAL DIRT
26. ZU - GOODNIGHT CIVILIZATION (III°ITA)
25. MAC DE MARCO - SALAD DAYS
24. PAOLO NUTINI - CAUSTIC LOVE
23. TUNE-YARDS - NIKKI NACK
22. DAMON ALBARN - EVERYDAY ROBOTS
21. STRAND OF OAKS - HEAL

20.  BECK - MORNING PHASE
19.  ANTLERS - FAMILIARS
18.  BOB MOULD - BEAUTY AND RUIN
17.  AFGHAN WHIGS - DO TO THE BEAST
16.  LEE FIELDS & THE EXPRESSIONS - EMMA JEAN
15.  ST. VINCENT - ST- VINCENT
14.  TEMPLES - SUN STRUCTURES
13.  WILD BEASTS - PRESENT TENSE
12.  BLACK KEYS - TURN BLUE
11.  GHEMON - ORCHIDEE (II° ITA)

10. BIG UPS - EIGHTEEN HOURS OF STATIC
9.  SUN KIL MOON - BENJI
8.  CLIPPING - CLPPNG
7.  ANGEL OLSEN - BURN YOUR FIRE FOR NO WITNESS
6.  PARQUET COURTS - SUNBATHING ANIMAL
5.  JUNKFOOD - THE COLD SUMMER OF DEAD (I° ITA)
4.  CURTNEY BARNETT - THE DOUBLE EP: A SEA OF SPLIT PEAS

3.  SWANS - TO BE KIND












2.  JACK WHITE - LAZARETTO 














1.  CLOUD NOTHINGS - HERE AND NOWHERE ELSE






giovedì 5 giugno 2014

Recensione: My Bloody Valentine - MBV


Ricomincio a ripescare un pò delle cose pubblicate in rete nel tempo. Comincio da questa recensione per Storia della musica, pubblicata il 7 febbraio 2013. Disco, questo MBV, che con il tempo è cresciuto molto. Questa recensione la scrissi dopo 3/4 giorni di ascolti. Nel frattempo ce ne sono stati molti altri, ma devo dire che gran parte delle cose dette allora le sottoscrivo ancora oggi. 












È uscito l'ultimo album dei My Bloody Valentine. Di già? E si perché 22 anni (tanto è passato da Loveless, l'ultimo LP) possono essere un'eternità come un battito d'ali di farfalla se parliamo del gruppo che ha cambiato i connotati alla musica tradizionale in una maniera tanto innovativa e codificante che tanti, troppi (?), in questi anni ti hanno più o meno fatto pensare a loro.
Prima di cominciare lasciatemi dire che se siete alla ricerca di una recensione che soddisfi le ansie da tecnocrati della musica o volete trastullarvi con iperboli che incastrino sublimemente espressioni come shoegazing , stratificazioni, riverberi, saturazioni,fuzz, muri di suono, chitarre noisedream pop, e via dicendo, andate pure a leggervi le migliaia di recensioni che inonderanno a breve l'orbe webbaqueo, io cercherò semplicemente di trasmettere ciò che questo disco mi ha lasciato, dicendovi, possibilmente, se mi è piaciuto e nel caso quanto. 




Non è tracotanza banalotta o smania di voler essere diversi e migliori, ma semplice invito a spogliarsi della ruggine che 22 anni di ininterrotta pioggia acida hanno sedimentato nelle nostre orecchie e nella nostra testa. Se è vero che l’attesa del piacere è essa stessa piacere, e anche vero che nel frattempo il mito ha alimentato un mostro, con parziale verità anche per il viceversa. E si perché se fino al 2012 (concedo il beneficio del dubbio all’appena cominciato 2013) la musica più in voga “in-certi ambienti” si è rifatta in modo abominevole al prototipo sviluppato da band come My Bloody Valentine e The Jesus and Mary Chain ciò è dovuto, ma è una mia opinione, più alla ricerca spasmodica dell’inesplorato rivendibile come esclusiva sciccheria che ad altro. Non che le suddette band non abbiano rappresentato delle pietre miliari nella storia della musica e nella mia personale formazione musicale. Ma neanche giusto sarebbe idolatrare fino alla fanatica adorazione chi, alla fine, ha semplicemente fatto, più che onestamente e molto meglio di altri, il proprio mestiere di artista che, per definizione, deve metterci del suo.





I 25 anni di interrotta carriera dei My Bloody Valentine continuano oggi con l’uscita, scoordinata, originale ma un tantino schizofrenica, di questo MBV. Quando molti ormai avevano perso ogni speranza il 2 febbraio 2013 Shields e soci annunciano via social network (e si, oggi usa così) l’uscita, dalla mezzanotte, del loro nuovo album, l’atteso, più volte annunciato e poi sempre rimandato,  follow up di Loveless. Mentre il sottoscritto dormiva beatamente, che tanto il giorno dopo sarebbe stato lo stesso, migliaia di fan aspettano la mezzanotte sul portale più sanguinoso del pop mondiale per scaricare e ascoltare prima di tutti l’ottava meraviglia dell’umanità. Il sito va in tilt, crasha a ripetizione lasciando molte bocche asciutte e tanti sogni turbati. Davanti ad un muffin ai mirtilli e un ottimo cappuccino con tripla schiuma, comodamente seduto, tre giorni dopo arriva anche il mio turno.
Tutto d’un fiato allora, il cappuccino. Poi comincio seriamente l’ascolto, che si riferisce necessariamente alla versione digitale, l’unica ad oggi rilasciata e considerando l’attendibilità delle dichiarazioni della band, l’unico dato sicuro e incontrovertibile.




Se l’idea è di porsi in scia per dare un seguito a Loveless, la prima traccia, She found now, spiazza un po’. Il magma sonoro è lento, ruvido, più sporco e molto meno decifrabile di quanto avviene mediamente nel suddetto capolavoro. Per quanto la melodia sia riconoscibile e apprezzabile, non c’è quell’immediata empatia che l’assuefazione ai suoni di Loveless avrebbe richiesto. Cosa che in parte accade con la successiva Only Tomorrow. Potente e dal piglio più vivace e deciso, sebbene sempre sepolta da una nube tossica di rumore in bassa fedeltà (che fatica non dire noise), ricorda il passato senza necessariamente ricalcarlo pedissequamente. Un primo vero segnale di vita nuova lo si ha con la tripletta Is this and yes/ If I am/ New you. Organetto e vellutata drum machine a fare da tappeto ai lamenti da sirena di Bilinda Butcher (Is this and yes), vaneggiamenti elettronici su melodie celestiali e ritmi sgonfi e sfibrati (If I am) un travolgente passo techno pop/hip pop (New you) passeranno probabilmente alla storia come il momento più pop del dream dei My Bloody Valentine.

In another way è la chitarra di Tom Morello dei Rage against the machine che ti appare in sogno a comunicarti il nuovo sodalizio amoroso con Satomi Matsuzaki, la voce nip-pop dei Deerhoof. Un sogno che viene bruscamente interrotto dal rave party scatenato da Nothing is con il suo loop di magnifico e pulsante fracasso, sempre uguale a se stesso eppure maledettamente necessario e dalla confusa e caotica (per alcuni un pregio, non per me) Wonder 2. Un mix perfetto, ex cathedra, tra sogno e rumore è ancora ben espresso in Who sees you.



Ho sempre ritrovato nel suono dei My Bloody Valentine un lato più duro e oscuro ed uno più sognante e mieloso che nel corso degli anni ha raggiunto quell’equilibrio perfetto nella miscela che gli ha resi unici. MBV, nei suoi variegati momenti, estremizza queste due facce rompendo in parte l’incantesimo del suddetto canone di perfezione alla ricerca di qualcosa che non venisse percepito come banale ripetizione o tombale autocelebrazione. Quanto l’esperimento sia effettivamente riuscito lo dirà il tempo e l’eventuale susseguirsi degli ascolti. Sta di fatto che i MBV, quantomeno, hanno finalmente placato le ansie di chi ha aspettato tanto.  Se la pretesa di qualità e quindi la soddisfazione dovesse essere proporzionata al tempo dell’attesa, saremmo autorizzati a sentirci davvero delusi. Preso invece per quello che è, sic et simpliciterMBV, è un album valido, onesto, difficile per certi versi, ma lascia alla fine piacevolmente rinfrancati. In tanti hanno fatto quello che Shields e soci hanno teorizzato anni fa, ma quando il maestro scende (o sale?) nuovamente in campo, accorgersi che sia tutta un’altra musica, è rassicurante e rende finalmente giustizia a chi le scarpe le fissava non per vanità, ma per cambiare il destino delle cose.



giovedì 15 maggio 2014

I 10 album (più 1) di black music che mi hanno cambiato la vita

I 10 album (più 1) di black music che mi hanno cambiato la vita

Fare le liste è sempre difficile. Sia che si tratti di quella della spesa per la cena o di quella dei tuoi peggior nemici, si rischia sempre di essere imprecisi, superficiali, di lasciare fuori ciò che doveva star dentro o di tener dentro ciò che doveva starsene fuori. Come fare quindi a tracciarne una, di dischi di musica black, senza rischiare di fare un buco nell’acqua? Non lo so. E non lo voglio sapere. So però che una delle prerogative di questa musica è l’anima, spesso martoriata ed alla continua ricerca di una riscossa. Ferita e poi rigenerata. Passionale, orgogliosa, sofferente ma poi deliziata dalla bellezza delle cose della vita. Le cose semplici. Le cose essenziali.

Per sintonizzarsi su certe frequenze ci deve quindi essere, di base, una particolare predisposizione emotiva e forse anche culturale e sociale, che possa condurre l’ascoltatore ad una quasi perfetta condivisione di intenti e di sentimenti con chi si propone a te, dal vivo o filtrato da un disco. Quella che potrebbe quindi sembrare la cosa più difficile da fare, stilare una lista di 10 album black indispensabili (più uno), diventa la cosa più facile, se a guidare il processo selettivo non è più la mente o una la calcolatrice, ma il cuore. Il tuo cuore. Lui che non cerca spiegazione alle cose, lui che le vive, le sente e con istinto e passione te le mette irreversibilmente in circolo. Dà pure giudizi certo, basati perlopiù sull’emozione imponderabile, spesso irrazionale, spesso anche distorta e poco attendibile. Quante volte infatti ci si pente amaramente delle sue scelte, troppo impulsive. Ma tant’è.

La mia scelta, di cuore, è ricaduta così su 10 album, importantissimi per la mia personale formazione musicale sul genere e non solo. Ognuno di questi album è mio fedele compagno di vita, mi piace dire da sempre. Mi vergogno forse un po’ a dirlo pubblicamente, tanto è intima la faccenda, ma è giusto parlarne.

In ordine meramente cronologico:

1.       Sam CookeNight Beat (RCA, 1963)
Non l’album più famoso (se cercate quello, allora bisogna procurarsi “The Wonderful World of Sam Cooke”) di colui che è passato alla storia come il re della musica soul ma il più intimo e partecipato. Una sorta di prototipo per tutto quello che verrà e che influenzerà direttamente tutti gli altri artisti di seguito citati. L’archetipo.














2.       Nina SimonePastel Blues (Philips, 1965)
Il capolavoro di Eunice Kathleen Waymon in arte Nina Simone, la voce femminile del jazz nero, la regina della black music a 360°, una donna come ne nascono una o forse due ogni sei o sette generazioni. Il diamante.

 













3.       Otis ReddingOtis Blue/ Otis Redding sings soul (Stax, 1965)
Otis Redding fu un enfant prodige le cui doti canore furono “sfruttate” fin dalla tenerissima età per portare soldi in una famiglia poverissima. Aveva compiuto da poco 26 anni quando l’aereo su cui viaggiava precipitò sul lago Monona, nel Wisconsin. Giusto in tempo per regalare all’umanità uno dei dischi più belli di sempre nonostante composto, per la quasi totalità, da cover. Le lacrime.














4.       Isaac HayesHot buttered soul (Stax, 1969)
La pelata più famosa e importante della musica soul e funk. Quattro tracce che cambieranno per sempre il corso della musica nera. Il fuoco.















5.       Donny HathawayEverything is Everything (AtCo, 1970)
Tutto è tutto per Donny, e se un turnista e artigiano della musica, riesce a intraprendere una difficile carriera da solista e tirar fuori una gemma di tale portata, non c’è spazio per altro. La passione.















6.       Roberta FlackQuiet fire (Atlantic, 1971)
L’altra donna di questa classifica è un’altra icona, l’unica a mio avviso a tenere il passo (senza però eguagliare) Nina Simone. Quiet fire è l’apoteosi dell’anima mistica, tribale e sognante della black music. Il sogno.
















7.       Marvin GayeWhat’s going on (Tamla, 1971)
Questa volta tutto è chiaro. A tutti. Lui vuole fare l’amore con te, ma il sesso non c’entra niente. No, non sei gay(e), o forse lo sei anche. Non è importante. Il più grande.
















8.       FunkadelicMaggot Brain (Westbound, 1971)
Tutta un’altra musica eppure la stessa musica. George Clinton rimescola le carte in tavola portando fumi, tanto groove e psichedelia nell’anima della musica. Gliene saremo grati per sempre. L’azzardo.














9.       Bill WithersStill Bill (Sussex, 1972)
Con Still Bill Withers porta definitivamente il funk nel soul. Con rabbia, con trasporto, con ispirazione e talento. Nella mia personale classifica di interpreti neri di tutti i tempi, è secondo solo a Gaye. Ma non tutti i giorni. Il cuore.















10.   Curtys MayfieldSuperfly (Curtom, 1972)
Poche voci mi hanno sconvolto l’esistenza così come ha fatto quella, inconfondibile e veramente unica, di Curtis Mayfield. Se in abbinamento c’è un sound inzuppato di groove ammiccante, afro-orchestrale, magnetico, ecco che la colonna sonora di un film di terza serie diventa un classico sempiterno. Il sangue.














11.   Matthew E. WhiteBig Inner (Spacebomb, 2012)
Il non-classico che inserisco in classifica è la meravigliosa avventura contemporanea di questo inguaribile nostalgico, ormai fenomeno di culto, anche solo a guardarlo. Un omaccione barbuto e triste che appena parte la musica è magia. La fede.





giovedì 9 gennaio 2014

Fast Animals and Slow Kids - HYBRIS (...a saperlo prima)



Fast Animals and Slow Kids - HYBRIS (2013, Woodworm/ To lose la track)




emocore (in) italiano






Questa non è una recensione. Questo non è un post sul mio blog come gli altri. Questo non è il consueto “Album della settimana”. Questo non è un pensiero o il mio punto di vista  su un album uscito da poco, come tanti ce ne sono stati nell'anno appena terminato, qui e altrove, e come tanti altri spero ancora di scriverne. Questa che leggete è una auto-flagellazione virtuale, una crocifissione in sala mensa di fantozziana memoria, l’abbonamento alle prossime cinque edizioni dei Vattienti di Nocera Terinese, alla qual cosa si riferisce la foto sotto. 



Quest'anno i Fast Animals and Slow Kids hanno dato un seguito al già bello CAVALLI del 2011,  e lo hanno intitolato HYBRIS, e io non l'ho ascoltato (in tempo per la classifica di fine anno), e io non me lo perdonerò così facilmente.



Fino agli ascolti, ormai numerosissimi, di quest'album fantastico, ritenevo QUINTALE dei Bachi da Pietra, l'album italiano dell'anno (guarda caso, un altro album rilasciato dalla Woodworm). Oggi, 9 gennaio 2014, a distanza di ormai un mese dalla piacevolissima tortura della detta classifica, posso serenamente dire che dovrei quantomeno regalare decine di ascolti ad entrambi prima di decidere chi dei due la spunterebbe. 



E non è (solo) una questione tecnica, di estetica della musica, di testi scritti bene, cantati meglio, di immaginario generazionale descritto con commovente trasporto. Mai come questa volta è stata una vera reazione impulsiva, d'istinto, di reazione emo-tiva verso una proposta musicale, essenzialmente emo-core, genere al quale sono storicamente affezionato, in modo quasi sacrale, e che raramente riesco ad accettare fuori dai tempi che furono, neanche a parlarne poi se proposti in italiano.


E invece il treno, in folle corsa, di questi Fast Animals and Slow Kids mi ha regalato una botta dritta nei sensi che mi aiuterà a tenere bene a mente il loro nome per i prossimi giorni, mesi, (speriamo quanti più possibili) anni. L'italiano non è un problema, anzi un valore aggiunto se urlate con intensità sono parole che restano. La musica va fin troppo bene se la lezione emo è rivisita con metodo sempre più ispirato, traccia dopo traccia, sempre in crescendo, fino ad arrivare a quella "Calce" che, adesso come adesso, eleggo brano dell'anno. No, non ho detto brano italiano dell'anno. 
Lunga vita ragazzi. E scusate, ancora.





Tracklist
  1. Un Pasto Al Giorno
  2. Fammi Domande
  3. Combattere Per L'incertezza
  4. Dove Sei
  5. A Cosa Ci Serve
  6. Farse
  7. Maria Antonietta
  8. Troia
  9. Calce
  10. Canzone per un abete, Pt, 2
  11. Treno