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martedì 30 ottobre 2012

VIDEOGRAPHY - La musica dei video documentari

 La storia della musica, della mia musica, raccontata attraverso i più bei documentari presenti in rete. In  ordine di ritrovamento ed in fase di ampliamento.
 

RECENSIONE: Band of Horses - MIRAGE ROCK

Columbia Sony (2012)

Pop Rock - Country Rock - Southern Rock

Se fossi una fan dei Kings of Leon, specie quelli di Come around Sundown e Only by the night, darei 8 solo per brani come Knock Knock e Feud. Se fossi una cover band che snocciola classici country/southern rock in semi affollati pub metropolitani, a meta' strada tra Simon & Garfunkel e Creedence Clearwater Revival, direi 8 per pezzi come How to live, Slow Cruel Hands of Time, Electric Music, Everithing's gonna be undone, che allieterebbero spensierate chiacchierate tra amici sorseggiando birra. Se fossi un fanatico fan dei Band of Horses ("come sono e fui"), quelli di Cease to Begin, direi che siamo di fronte al brusco risveglio da un sogno meraviglioso. Ma poiché fondamentalmente altro non sono che un onnivoro di musica, sempre alla ricerca di qualcosa che resti in mezzo alla moltitudine di cose che passano, dico semplicemente che Mirage Rock e' un album mediocre, dove niente o davvero pochissimo rimane.

Da un parte confuso, banale, mai a fuoco, senza personalità, e dall'altra privo di quel minimo respiro internazionale,  finanche di quei singoli guizzi, che spesso riescono a lenire le ferite di album semplicemente fuori fase.  

Knock Knock, il primo singolo, e' un pezzo da amore immediato, se si e' alla ricerca di emozioni facili. Poi una carrellata di esercizi di stile, che pero' non arrivano mai perché confondibili, privi di malizia e quasi sempre sottotono.



Giunti a A little biblical, si ha l'impressione che un po' la musica cambi, arrivando dalle parti di un funny rock stile Weezer. Ma e' una svolta che non porta a niente. L'ascolti la seconda volta e già ne sei stufo. Shut-in tourist fa invece risentire certi profumi, certe peculiarità e, perché no, certe emozioni, che furono di Cease to Begin. E' probabilmente l'unico pezzo che salvo appieno, perché interpretato con passione e perché meno confondibile degli altri.



Una menzione e un po' di rispetto la merita pure Heartbreak on the 101, nonostante sembri ricercare fin troppo quel pathos alla Tom Waits o alla Bruce Springsteen in The Ghost of Tom Joad, che pero' quando non si e' ne' l'uno ne' l'altro, si rischia inevitabilmente di far la figura, (piu' che dignitosa, per carità!) di quelli che nei pub li imitano.  






"Is there a ghost?" Yes,  definitely here It is. Ripartire da Cease to Begin, e ci saranno giorni migliori.
Per tutti ma non per molti. Giro a vuoto.

Pubblicata su Storia della Musica .

martedì 23 ottobre 2012

lunedì 22 ottobre 2012

MONOGRAFIE - Black Keys

Pubblicata su Ondarock il 16 settembre 2012



La cantina dalle uova d'oro

Un appassionante viaggio "à rebours", un po' immaginario, un po' reale, a bordo di un polveroso minivan vintage, dal Delta (-blues) del Mississippi ai fatiscenti e roboanti garage (-rock) di Akron, Ohio, passando per i templi sacri del rock & roll e della soul music. È la parabola musicale in continua mutazione di Dan Auerbach e Patrick Carney, al secolo Black Keys

I Black Keys sono oggi probabilmente il duo blues rock più famoso d'America. Dopo il recente scioglimento dei White Stripes, sono rimasti probabilmente gli unici a rappresentare ancora ai massimi livelli commerciali quel discorso musicale, scarno ed essenziale, legato solamente (quanto meno da un punto di vista "iconoclastico") a una voce, una chitarra elettrica e una batteria.

Behind the scenes

La storia dei Black Keys, musicalmente parlando, comincia nel 2002. Siamo ad Akron, Ohio. Due squattrinati e scanzonati ragazzini, amici da sempre, dopo aver abbandonato l'università fanno, spesso insieme, dei lavoretti saltuari per sbarcare il lunario. Finché il caso, o meglio, la casualità, non porta i due amici a esibirsi involontariamente da soli nella cantina-studio di registrazione (o "vorrebbe tanto essere tale") dello stesso Patrick. La clamorosa "sola" rifilata a Dan dai ragazzi ingaggiati per accompagnarlo nel suo primo tentativo di incidere qualcosa si rivela infatti la favolosa e magica svolta che vale un sogno, finora soltanto fantasticato, nonostante i dieci anni di attività. Pochi mesi dopo quella prima jam sassion casalinga nasceva infatti The Big Come Up, primo capitolo della loro già copiosa e variegata discografia.

Una sconfinata passione tramandatagli dal padre per la chitarra e il blues, quello vecchio, quello sacro, quello benedetto dalle acque sante del Delta del Mississippi (dai padri fondatori quali Freddie Spruell, Ishman Bracey e Son House, fino ai più recenti Junior Kimbrough, Mississippi Fred Mc Dowell e R.L. Burnside), Dan. Una naturale predilezione per il post-punk di reynoldsiana catalogazione (dai concittadini Devo ai Gang Of Four), una batteria e un mini-studio di registrazione per hobby, Patrick. Un desiderio comune di esprimersi con la musica e calarsi in uno stile già esploso nel recente passato (Black Rebel Motorcycle Club, Greenhornes, Detroit Cobras, Bantam Rooster, Soledad Brothers, Jon Spencer Blues Explosion) e che vigorosamente sta riemergendo in quegli anni (White Stripes, Jet, The Von Bondies, The Kills). Il desiderio, lussurioso, di vedere innestati gli inviolabili semi del blues sacro che fu degli avi all'interno di rullate frenetiche, stonate e sgonfie, "schitarrate" debordanti, sudore e rumore propri del dannato rock, quello più duro, quello meno "roll". Deturpare e violentare il blues con ambientazioni visive e sonore in bassa fedeltà non doveva più essere roba da anonimi ragazzini chiusi in bui garage. E così è stato.

Il blues-rock aveva pescato (e continua a farlo senza alcuna soluzione di continuità) direttamente dalle note di quel blues, già elettrificato, geograficamente e convenzionalmente riferito alla zona di Chicago, che fu, tra gli altri, di Muddy Waters e Buddy Guy. Le potenzialità e i profumi di quella musica furono adattati e fusi con l'energia purificatrice e assordante di amplificatori valvolari fumanti e chiassosi, comunque ricondotta a un kòsmos sonoro quando registrata in studio (sarebbe una lista di lunghezza siderale, mi limito quindi a citare dei punti di riferimento nel genere, con la doverosa premessa che questi nomi sfuggono a una sola, banale, classificazione, ovverosia Cream, Lonnie Mack, Zz Top, e poi ancora Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Stevie Ray Vaughan, Rolling Stones). Una nuova leva di "revivalisti" del blues, di molto successivi ai blues rocker appena menzionati (siamo grosso modo nei primi anni 90), pesca ancora più indietro, per arrivare in un certo qual modo ancora più avanti... più avanti, più avanti, perfetto, arrivati, siamo nel garage. I Soledad Brothers e Jon Spencer con la sua mitica band "di blues esplosivo" oltre ai primi White Stripes e ai Greenhornes sono tra i principali esponenti di questo movimento garage blues.

Ecco allora scoprire che il delta blues, quello fatto prevalentemente di chitarre "sliding" metalliche arroventate dal sole dei campi del sud degli States e suonate con oscillanti bottleneck indossati a mo' di anelli ortopedici, può sposarsi ottimamente con quella prepotente e scomposta forza rock che è principale caratteristica del garage, nella sua accezione più ampia da un punto di vista tanto cronologico quanto dei caratteri fondanti. Per garage-rock generalmente si intende quella speciale deriva del rock che intorno ai primi anni 60, quasi come una sorta di primordiale forma di reality show, diede forza e lustro alla imperfezione sonora e all'"amatorialità" di certe rock band, che di tali caratteristiche fecero il loro punto di forza. Riprodurre in studio e dal vivo quelle sonorità da presa diretta, quegli echi e quei riverberi, quelle batterie rimbombanti, quei plettri incidentalmente strusciati sulle corde amplificate a presagire maliziosamente il rumore tronfio del riff che sta per concretizzarsi, quei fischi di amplificatore che d'un tratto, da elementi di disturbo vengono promossi a elementi di musicalità. Questo è il garage del rock. Chiunque abbia mai assistito a esibizioni di gruppi rock in tali contesti ha sicuramente ben presente la scena.

E questo è, molto probabilmente, il backgroud emotivo di Dan Auerbach e Patrick Carney, quello che ha influenzato la maggior parte della loro produzione artistica, quanto meno quella che da The Big Come Up (2002) arriva ad Attack And Release (2008). Perché poi comincia davvero tutta un'altra storia.

Il periodo "delta garage"

Le (s)fortunate circostanze che portarono Dan e Patrick a registrare, con tecnologie e atteggiamento assolutamente lo-fi, nello scantinato di Patrick, furono apprezzate dalla Alive Records, giovane label locale, che con un budget modestissimo decise di dare un'opportunità e un minimo di promozione a questi volenterosi e impolverati ragazzini. The Big Come Up (2002) è sicuramente l'album più grezzo e meno patinato della loro carriera, ma è allo stesso tempo un sentito tributo alle radici delta blues alle quali i primi Black Keys si rifanno palesemente. Non è un caso se i primi due brani dell'album, "Busted" e "Do The Rump", siano due reinterpretazioni di due capolavori di R.L. Burnside ("Skinny Woman") e Junior Kimbrough, al quale ultimo tra l'altro verrà dedicato un intero e fenomenale Ep nel 2006 (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough). Rispetto alle versioni originali c'è tanta più energia, elettricità e volume. Solo il cantato sembra ancora rifarsi fedelmente alle ugole d'ebano che furono. Nell'album è presente anche una ruvida cover di "She Said She Said" dei Beatles, perché un po' di puzza di garage in effetti c'era pure in "Revolver", e non solo lì, se è vero come è vero che antesignani del garage sono comunemente ritenuti i Remains, che dei Beatles aprirono, non a caso, numerosissimi concerti negli Stati Uniti.
La voce di Dan, in tutte e tredici le tracce, sembra registrata negli anni 60 ed è calda e intensa, assolutamente credibile nel ruolo che interpreta. "I'll Be Your Man" è il primo brano al cento per cento Black Keys presente nell'album (e quindi nella loro intera produzione discografica). È fresco, quasi ballabile, con ambientazioni R&B e soul che ritroveremo con maggiore intensità in futuro (soprattutto in Brothers). È il brano con l'ingrato compito di trainare una carretta che, almeno in quegli anni, stenta ad avere un seguito di rilievo, quel seguito che in realtà questo album già meriterebbe. Ma si sa, quante band fanno dell'ottima musica che viene però alla luce solo quando quella meno bella, ma più commerciale, si afferma. Il numero preciso non lo conosciamo, ma sappiamo per certo che tra queste band ci sono i Black Keys.

The Big Come Up è quindi l'allodola in attesa del suo specchio, dove tre reinterpretazioni di classici della tradizione blues (ancora la sempreverde "Leavin Trunk"), il rock and roll di "Yearnin", le energetiche staffilate al fulmicotone di "Heavy Soul" e le sperimentazioni blues-space-hip hop dell'ultima traccia, "240 Years Before Your Time", assistiamo alla prima esplosione di quel geniale ordigno che, come impareremo presto a capire, deflagra in modo sempre diverso a seconda della superficie sulla quale è adagiato.



Appena un anno dopo, Thickfreakness (2003) segna il debutto per una piccola ma importante label quale la Fat Possum. Nonostante poco sembra sia cambiato rispetto al disco d'esordio, si nota una maggiore influenza soul, soprattutto nel cantato di Auerbach. Uno dei pezzi più belli e intensi dell'album è infatti una cover di Richard Berry ("Have Love Will Travel"), tra i maggiori esponenti del cosiddetto doo-wop soul, dove l'R&B incontra e si fonde con il soul in modo leggero e corale. Lo spirito di Junior Kimbrough aleggia ancora prepotentemente nella loro produzione e viene suggellato qui dall'ennesima loro magistrale reinterpretazione di un suo classico, "Everywhere I Go", quel pezzo che immagini a farti compagnia, seduto su una sedia dondolante a ritmo, mentre il vento caldo del tramonto ti asciuga il sudore di una intera giornata di lavoro nei campi. Il capolavoro.
Il sipario lo alza però la title track, che mette subito le cose in chiaro. Questo è un album di blues rumoroso, quello lento ma detonante. In giro di musica del genere se ne sente già, ma forse non proprio in termini di così fedeli ed espliciti riferimenti al delta blues (specie nel ritmo e nel cantato). Se la successiva "Hard Row" (così come anche "Hurt Like Mine") ci porta dalle parti del primo omonimo White Stripes, "Set You Free", musicalmente parlando, è un chiaro riferimento all'"arancia esplosiva" di Jon Spencer. Potente e convulsiva, nel cantato resta però fedele alla tradizione, come del resto accade sempre nel corso dell'intero album. Una menzione la merita pure "If You See Me", perché se non altro ci preannuncia quello che succederà con le prossime produzioni: una leggera sterzata verso un blues-rock più classico, stile Cream, Blind Faith o Grand Funk Railroad.
La cosa che realmente fa però la differenza in Thickfreakness è il primo serio lavoro di marketing attorno alla band da parte della Fat Possum. I due talentuosi ragazzi escono così definitivamente fuori dagli scantinati di Akron e iniziano ad aprire concerti importanti (Jon Spencer Blues Explosion), ad avere un proprio piccolo tour e a far parlare di sé in modo convincente i media di settore che perlopiù ne sottolineano le forti similitudini con i contemporanei White Stripes. Purché se ne parli.



Rubber Factory” e l’approdo a un blues rock classico

Nonostante un estenuante tour che porta Dan e Patrick a esibirsi su numerosi palchi importanti e a cancellare molte date del tour europeo perché totalmente spremuti, i due continuano a lavorare al nuovo album, il primo a non essere più registrato nello scantinato di Patrick, molto banalmente perché Patrick cambia casa. La ricerca di un nuovo posto dove registrare porta i due ad allestire uno studio di registrazione in una fabbrica di pneumatici in disuso, sempre ad Akron. Il nome dell’album, sempre su Fat Possum, così come la stessa copertina, sono quindi una rivelazione di questo curioso retroscena: Rubber Factory (2004).
Nonostante le premesse, Rubber Factory risulta essere molto più fresco, veloce e rock dei due album precedenti. Dal delta blues si passa, per la prima volta con una certa organicità, a un più classico blues-rock. A parte infatti la prima, stupenda, “When The Lights Go Out”, che sembra fare da collante con il recentissimo passato delta garage, il disco è, almeno nella prima parte, un tripudio di veloci e classici riff stile Cream, Jimi Hendrix (che spessissimo sembra essere emulato pure nella voce) e Free di “All Right Now”. Questa ventata di “gioia” rispetto ai precedenti tristi lamenti dei lavoratori del Mississippi apre le porte alle prime vendite a doppi zeri della band, alle apparizioni in tv e radio mainstream del globo e a decine di importanti commercial. Sì assapora così il primo vero successo, ne parlano (quasi) tutti.
I brani che segnano questa piccola svolta sono “10 A.M. Automatic”, “Just Couldn’t Tie Me Down” (che sembra suonata e cantata da Muddy Waters in persona) e “The Desperate Man”.Il brano che però riesce a vivere di vita propria e ad avere un importante seguito, richiamando l’attenzione sull’intero album è “Girl Is On My Mind”, dichiaratamente ispirato a “Shot Down dei mitici Sonics, antesignani anche loro, neanche a dirlo, del garage-rock. È questo il brano più rock e travolgente del disco. Un pezzo che sa stare nelle orecchie senza che necessariamente chiare e specifiche influenze garage, blues, soul o country vengano alla mente, seppure ci siano tutte.
Poi arriva “The Lenghts”, la prima ballad mai partorita sinora. Dolce e malinconica, una steel guitar e voce accompagnati da una batteria discreta, in punta di piedi, che segna il giro di boa dell’album. La seconda parte ha invece il consueto sapore roots revival, con un po’ di blues, di country e di rock; ritroviamo due favolose re-interpretazioni (dire cover sarebbe molto riduttivo) di “Act Nice And Gentle” dei Kinks e “Grown so Ugly” di Robert Pete Williams. Un crogiolo di idee e di suoni, fino ad arrivare all’ultima incantevole traccia il cui titolo sa un po’ di confessione psicanalitica, “Till I Get My Way”. Un misto di R&B, soul e noise come solo da queste parti sanno fare bene.


Il nostro minivan si sposta, per ora solo idealmente, dal Delta del Mississippi alle periferie di Chicago, sebbene fisicamente sia ancora lì, in quel di Akron.

 
Magic Potion” e il passaggio alle major discografiche

Arriviamo così al 2006 quando i Black Keys sono ormai un duo affermato al quale cominciano ad arrivare succulente offerte da importanti label. Ragion per cui, esauriti gli oneri contrattuali con la Fat Possum, alla quale comunque concedono il delizioso Ep dedicato interamente a Junior Kimbrough (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough, nel quale spicca l’intensa e struggente versione di “Meet Me In The City) i due passano alla Nonesuch della famiglia Warner, l’importante major della quale ancora oggi fanno orgogliosamente parte.

Cambia l’etichetta, ma non sembra cambiare altro. Il “nuovo” discorso cominciato con Rubber Factory continua infatti senza soluzione di continuità in Magic Potion (2006), il primo Lp per Nonesuch. Tanto blues-rock classico, ma molto entusiasmo in meno. Magic Potion, infatti, è probabilmente l’album che suscita meno entusiasmi dell’intera loro carriera. Scontato e ripetitivo, non sembra togliere o aggiungere niente al loro camaleontico cammino, stazionando dalle parti del blues-rock più emulato. I due appaiono stanchi e sotto pressione. Meritano comunque una menzione, perché dignitosamente sopra la media dell’album, “Just Got To Bee “Your Touch”, con i loro riff di chitarra assordanti e affilati e i loro simpatici ed efficaci video. “Black Door” prova anch’esso a porre rimedio all’emorragia di idee a vitalità che si stava consumando. Ma vi riesce a stento.


Un discreto passo in avanti i Black Keys lo compiono con Attack And Release (2008), dove se non altro i due recuperano quella serenità che permette loro di ritrovare un po’ di verve, passione e fantasia, qualità che in Magic Potion sembravano completamente esaurite. Il disco, infatti, mostra maggiore personalità e grinta, e sperimenta in alcuni punti (il basso, banjo, cori e tastiere di “Psychotic Times” o la drum machine e gli effetti di “Remember When (Side A)”) nuove sonorità che vanno oltre il classico, esclusivo connubio chitarra e batteria. Ma il pezzo che scalda davvero il corpo e l’anima è la magnifica “I Got Mine”. Qui il suono che viene in mente è il primo hard-rock che fu di Led Zeppelin, Uriah Heep, Deep Purple, Steppenwolf e compagnia meravigliosa, sempre con le dovute sfumature blueseggianti. Jethro Tull in versione tribale è l’alchimia suggerita da “Same Old Thing” che con i suoi flauti e congas risulta essere l’azzardo più insolente che il duo si è concesso finora (e tutto sommato non è andata neanche così male).
L’ultima traccia, “Things Ain’t Like They Used to Be”, spiazza un po’ tutti. Un lento a metà strada tra i Bon Jovi più melensi e i Calexico di “Hot Rail”. Forse è solo un avvertimento per ciò che succederà a breve con le prossime produzioni.



Intanto la fama continua a crescere, così come i conti in banca e l’esposizione mediatica dei due. Inevitabili e puntuali arrivano così i primi dissidi tra Dan e Patrick che portano nel 2009 i Black Keys a prendersi una pausa di riflessione che conduce a quei classici progetti paralleli che sanno tanto di valvola di sfogo.
Auerbach dà alla luce un album solista di discreta fattura (Keep It Hid), mentre Carney suona la batteria in un discreto disco indie-pop/wave con un nuovo gruppo, i Drummer, per la sua piccola label (la Audio Eagle Records) dal titolo Feel Good Together. Tutti lavori più che dignitosi, per carità, ma ormai è fin troppo chiaro che le “uova d’oro” vengono prodotte solo se i due stanno insieme. La reunion avviene così poco dopo e in modo alquanto singolare, con un progetto che lo stesso anno (2009) vede i Black Keys collaborare con una schiera di artisti della migliore scena hip-hop/rap americana.
Il prodotto finito, Blackroc, è di piacevolissima riuscita, a testimoniare ancora una volta il fatto che nel cambiamento i due ritrovano sempre nuova e positiva linfa. “On The Vista”, “Stay Off The Fucking Flowers” e “What You Do To Me” i pezzi da incorniciare.


 


Brothers” e la svolta funky-soul

Nel 2010 arriva quello che molto probabilmente è il prodotto migliore, perché il più completo e appassionato, dell’intera carriera dei Black Keys. Viene infatti pubblicato Brothers, l’album che consacra il duo nell’Olimpo delle band più famose e apprezzate degli States e che, grazie soprattutto alla splendida e inusuale “Tighten Up”, gli permette di fare breccia ben oltre la consueta platea di fan e diventare così un fenomeno inevitabilmente mainstream. Ma questa conclusione non deve trarre in inganno. Perché Brothers è un album di ben 15 tracce che deborda in maniera fulgida ed emozionale da ogni parte. Ammicca e stordisce, incanta e risveglia. Ogni volta, ogni traccia, con originalità e malizia rinnovata. Rispetto ai primordi di The Big Come Up e Thickfreakness, le radici del blues del delta sono state pressoché completamente recise, lasciando spazio alle influenze R&B, soul e funky, solo timidamente accennate nei lavori passati, degne della migliore tradizione.
“Tighten Up”, dicevamo. Dan Auerbach ha dichiarato che fino alla fine ha provato a impedire che fosse inserita nell’album perché la sentiva troppo distante dalla loro linea artistica. Come dargli torto. Ma come dare torto a chi (il deus ex machina Danger Mouse) ha voluto che fosse comunque inserita. Fresca e leggera, introdotta da uno spensierato fischiettio, “Tigheten Up” è il soul che riabbraccia l’R&B, con tanto di tastiere dal sapore vintage a suggellarne l’amplesso.
“Everlasting Light”, la prima traccia dell’album, apre le danze. Ritmo lento e cadenzato, cantato in estensioni wonderiane e un clap clap che strizza l’occhio al gospel, tanto per non farsi mancare nulla. Quasi un funky stile colonna sonora di polizieschi anni 70 si nasconde dietro “Next Girl”, traccia cinica e accattivante che rende difficile il passaggio alla successiva, tante volte ti capita di volerla riascoltare. Per avere il rapimento definitivo, però, si deve arrivare alla traccia numero 4, “Howlin’ For You”. Un ritmo che ricorda la “My Sharona” dei The Knack e un cantato in stile hip-pop a introdurre un coro fatto apposta per essere cantato assieme ai fan in concerto.
Poi, è una parata continua di sensazioni soul e black dal groove malizioso e potente (“The Only One”, “Ten Cent Pistol”, “Too Afraid To Love You” e soprattutto le superlative “I’m Not The One” e “Never Gonna Give You Up”) interrotte solo da piccoli e pregevoli inserti del buon vecchio blues (“She’s Long Gone”) e da una esotica e tribale danza (“Sinister Kid”) e che raggiungono l’apice emozionale e l’optimum lirico nell’ultima, dolcissima e straziante ballata “These Days”.



Il nostro minivan si trova ora in Alabama, nei mitici Muscle Shoals Sound Studios. Ma il viaggio non è ancora finito.



L’arrivo a Nashville ed “El Camino”

Appena un anno infatti e il mitico minivan arriva a Nashville, patria del country-rock. Qui il duo si è ora definitivamente trasferito. Dan ha pure messo su un suo studio di registrazione, l’Easy Eye Sound Studio, dove ovviamente non poteva non nascere l’ultima, attesissima creatura.
El Camino (2011) è l’album che più di ogni altro dà l’impressione di essere stato “costruito” per vendere e per essere suonato efficacemente nei live. Ed è questo che è successo, quello che sta succedendo ancora oggi, in maniera esponenziale, a distanza di più di un anno dall’uscita del disco. Rispetto al precedente Brothers, El Camino mostra sicuramente una flessione della vena artistica e creativa, ma possiede indubbiamente una maggiore capacità di imporsi immediatamente sulle masse. Le influenze predominanti passano ora dal soul-funky al rock-rockabilly, senza però disdegnare caratteristiche del loro recente passato lasciate qui e lì, quasi a non voler essere troppo crudeli nei confronti dei fan della prima e della seconda ora. La terza ora è infatti quella di “Lonely Boy”, con l’amatoriale e trascinante ballo dello sconosciuto Derrick T. Tuggle e di “Gold On The Ceiling”, quei pezzi che arrivi a non poter più ascoltare, tanto sono trasmessi e inseriti in ogni contesto sociale. Ma almeno due o tre volte nella vita vanno ascoltati e ballati, perché meritano una intima ma smodata polluzione multi-sensoriale. Poi, per quanto ci riguarda, “il cammino” va ripreso à rebour. Perché il breve ma intenso percorso fin ora compiuto dai Black Keys regala tra le prime tappe i suoi brividi più intensi e passionali.



El Camino è infatti il classico album “cerchiobottista”, quello che arriva quando la fama è ormai alta e si vuole fare il botto da un punto di vista commerciale, mantenendo allo stesso tempo una certa dignità e etica nei propri confronti e nei confronti dei propri fan. Se infatti l’album si dovesse giudicare unicamente sulla base delle hit esplosive, quali le sopra citate “Lonely Boy” o “Gold On The Ceiling”, potremmo definitivamente relegarlo in una sorta di immaginario filone revivalista di un certo pop-rock/folk che spopolava negli anni 70 e che vedeva le chitarre elettriche, dolcemente distorte, entrare nei locali notturni a scaldare le danze di oceaniche platee allucinate (il Norman Greenbaum di “Spirit In The Sky”, i Five Men Electrical Band di “Signs” fino alla “locomotiva” dei Grand Funk Railroad).
El Camino è questo ma è anche altro. Solo che se il salto nel rock godereccio sembra riuscito benissimo (ancora, oltre alle due precedenti, segnaliamo “Hell Of A Season”) e siamo sicuri che innumerevoli feste di giovanissimi in ogni parte del globo oggi e negli anni a venire verranno degnamente chiuse da “Lonely Boy”, allo stesso modo l’aspetto più intimo e partecipato dell'album non sembra essere riuscito nel medesimo intento. Il lato southern soul stile Marvin Gaye o The Temptations è ancora presente in brani come “Stop Stop” e “Mind Eraser”, quello garage più classico in “Money Maker”, senza però mai riuscire a rapire completamente come accadeva in Brothers, facendo tornare alla mente i fantasmi di Magic Potion, quando ardore e fantasia sembravano ormai un lontanissimo ricordo.
Una menzione particolare la merita “Little Black Submarines”, un brano magnifico dove fortunatamente ritroviamo l’energia appassionata del passato unita a una graffiante vena nostalgica. È il brano che vuole comunicare trasporto, energia e commozione, riuscendovi pienamente. Un rock “ballerino”, sempre alla Norman Greenbaum, su un tappeto stoner viene poi sperimentato, senza infamia e senza lode, in “Run Right Back”.



 

In generale, la musica dei Black Keys è ormai saldamente arricchita da tastiere e basso, e l’immagine sacra del power duo musicalmente autosufficiente è lasciata ormai solo alle copertine patinate e alle quotidiane interviste. Per il momento il minivan è ancora parcheggiato a Nashville. Ma c’è da scommettere che nuovi lidi saranno presto esplorati. Non ci resta che attendere curiosi.

Franz Bungaro


venerdì 19 ottobre 2012

RECENSIONE: David Byrne & St. Vincent - LOVE THIS GIANT


4AD - Todo Mundo (2012)

Art Rock - World

“I celebrate myself,
And what I assume you shall assume,
For every atom belonging to me as good belongs to you”  



Con questi versi comincia Song of Myself, il poema di Walt Whitman al quale quest’album, ed una canzone in particolare (“I should watch TV”), dichiaratamente si ispirano. Come This Must Be the Place per l’omonimo film di Paolo Sorrentino, così quest’album, e I Should Watch TV in particolare, sarebbero stati la perfetta colonna sonora di Reality di Matteo Garrone, guarda caso i due registi che tutti, almeno una volta nella vita, hanno confuso. Reality e Love this Giant (dove il gigante è la televisione) sono animati dallo stesso proposito. Raccontare, denigrandoli cinicamente, gli aspetti più effimeri e relativisti dell’odierna società del niente. L’annullamento della propria banale individualità nella costante ed oppressiva mania di cercare altrove, in TV o per strada, quello che non siamo ma che vogliamo a tutti i costi fare nostro. L’alienazione nell’ansia di essere tutti. Uno, nessuno e centomila, avrebbe risposto la letteratura nostrana. Byrne e Annie Clark sono avanti, o forse sopra, ma per non restare da soli guardano indietro, o sotto,  per provare a capire e conoscere meglio gli abitanti del pianeta nel quale vivono, loro malgrado. La TV è lo strumento eletto per questo fine misericordioso (“I used to think that I should watch TV […] to understand the land I live in”).  


David Byrne, come anticipato, ha scelto come principale compagno di viaggio per questa sua nuova avventura una splendida Annie Clark, aka St.​Vincent, che con l’odierno gigante dà, a parer mio, la sua prova più credibile in carriera. E non è solo luce riflessa. Ad accompagnare i due, una pletora di musicisti (circa 50) della migliore scena brass statunitense.  
Love this Giant è, almeno nella prima parte, un concentrato multivitaminico di freschezza genuina, energia funambola ed animo gitano. Tutte cose che non ti aspetteresti da un vecchietto di sessant’anni appena compiuti, protagonista indiscusso del post-punk, del quale ogni tentativo di ridiscesa in campo va scrupolosamente valutato e passato al setaccio per filtrare eventuali bolliti pagamutuo o goffi tentativi di rimanere nella scena che conta. E invece no, David Byrne è ancora straordinariamente in forma e per gran parte del disco non lascia intravedere nessun secondo fine diverso da un sano e sincero amore per la musica. Una creatività pazza e gaudente di chi sempre sa stupire ed emozionare, semplicemente perché è un essere geniale.  
Gli strumenti che più capita di ascoltare e ricordare in quest’album sono gli ottoni tipici di una brass band (sassofono, corno, tuba e trombone), neanche fossimo in un disco di Goran Bregovic o della Fanfare Ciocărlia. La stessa overture di Who, primo straordinario singolo dell’album, è fatta con le note di un sassofono baritono bofonchiante. Una botta al cuore, di quelle che si provano ascoltando Speaking in Tongues


Gli elementi brass/balcanici, addolciti dalle voci mirabilmente melodiche e morbide di Byrne e St Vincent, su ritmi techo/hip pop/funky/fusion/R&B a seconda del caso, più altri vari inserti  di world music (come si fa a non dire che siamo nell’ art rock, ma non ditelo a Byrne) e la consueta chitarra acustica ritmata e tagliente sono il minimo comune denominatore dell’album.   Weekend in the dust ed il suo funky in salsa balcanica, Dinner for two con il suo animo epico che deborda nell’etno dance, Ice Age ed il suo incedere incalzante accompagnato dalla soave voce di Annie, due piccoli gioielli quali I am an ape e The forest Awakes (quest’ultima dalle parti di una Bjork in ottima forma), che non sfigurerebbero in un Guca festival, conducono alla suddetta I should watch TV, canzone anima del disco e speriamo prossimo singolo  tanto è incredibilmente bella e gustosa nell’ascolto. 



Poi però l’incantesimo si rompe, e da Lazarus, che comunque rimane discretamente sopra la sufficienza, anche per un certo sapore glo-fi che manda la mia mente “classificatoria” letteralmente in corto circuito, si assiste ad un clamoroso calo di prestazione. Optimist è bella quanto banale, una vetrina per le doti canore di St.​Vincent ma poco altro. Lightining e The one who broke your heart, assolutamente dimenticabili. Il lento di chiusura, Outside of space and time, rialza un pò la media, anche se eccessivamente lenta, triste e nostalgica. Sembra un pesce fuor d’acqua in un album di David Byrne
Il mio giudizio non può quindi che essere una media ponderata tra la strabiliante prima parte e la pressoché terribile seconda. Un album nel complesso di buona fattura, degno di essere ascoltato e perché no, acquistato, ma che non nasconde pecche, come ancora l’ingombrante presenza degli ottoni, che vanno bene se si vuole stupire una volta, va bene la seconda e la terza, ma inseriti in tutti i brani e in tutte le salse, è apparsa essere una sbrigativa forzatura, stucchevole in alcuni punti.
Non siamo certo ai livelli aurei ai quali Byrne ci ha più volte abituati in passato, ma ce ne fossero di sessantenni così! Immortale.

Pubblicata su Storia della Musica.

Brano del giorno: A place to bury strangers - "Fear"

Da "Worship" (2012)










lunedì 1 ottobre 2012

RECENSIONE: Claudia is on the Sofa - LOVE HUNTERS


Bluefemme - Gibilterra (2012)

Folk/rock - songwriting





Premi play e subito la mente va lì, a nomi come Eva Cassidy, Suzanne Vega, Sheryl Crow, Norah Jones, Tracy Chapman, Joan Osborne, in modo istintivo, senza sforzo apparente alcuno.



Ricordo che tempo fa, quando ancora guardavo la TV, andava spesso in onda una réclame dove un barbuto scalatore gustava un barretta di cioccolato sulla vetta di una montagna, finché un biondissimo gregario lo raggiungeva e chiedeva se (anche?) lui, ed il suo cioccolato, fossero svizzeri. Tutto sembrava presupporlo. Un po’ come è capitato con me e questo Love Hunters di Claudia Ferretti e soci, al secolo Claudia is on the Sofa. Tutto rimanda in modo perfetto e ricalca pedissequamente quel cantautorato rock/folk al femminile a stelle e strisce. L’unica pecca è forse proprio questa. Ovvero il non proporre niente di nuovo o di classico re-interpretato in modo originale o almeno personale. È un perfetto esercizio di stile alla ricerca di quell’emulazione che sa di forte e sincera passione per un genere musicale. 



Sta di fatto che, stabilito l’obiettivo, l’esordio di Claudia is on the Sofa lo raggiunge in modo ottimale. Niente di nuovo ma fatto molto bene, se si considera che siamo a Brescia e noi "non siamo mica gli americani". La voce di Claudia Ferretti è magistrale nel suo ruolo fin troppo definito. La band (Francesco De Gennaro, Andrea Abeni, Marco Franzoni e Massimiliano Topolini) è precisa e discreta, quelli che lo stile e l’eleganza li riconosci quando non danno nell’occhio (e nelle orecchie).  

Ottimo compagno di viaggio per road trip all’italiana, sognando di fare come gli americani, o come sottofondo per serate rilassate con amici o da soli a sorseggiare vino rosso della California (ma può andar bene anche un buon Botticino) comodamente adagiati sul divano di casa. Nel primo caso il rischio che si corre è che scendendo dall’auto all’autogrill di Roncobilaccio con stivali a punta,  gilet in pelle bovina frangiati e cappello da cowboy, gli altri possano farti sentire a disagio. Ma è un rischio che l’integralista musicale, dal punk rocker al metallaro, ha sempre corso.



Che la storia continui, così come spero continui la storia di Claudia is on the sofa.  Brani più belli, sicuramente Boy, Love Hunters, Tonight e, soprattutto, Apple Tree.

Pubblicata su Storia della Musica il 29 settembre 2012.

Brano del giorno: Cerulean - "Apologetic Shoulder Blades"

Da "Baths" (2010)