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venerdì 22 giugno 2012

RECENSIONE: FOE - "Bad Dream Hotline"

Mercury (2012)
Genere: Dark/pop-rock

Una manciata di The Kills, un cucchiaio di Garbage, un pizzico di PJ Harvey, Alanis Morrisette e Black Sabbath (udite udite!) quanto basta. Una ricetta semplice e veloce per piacevoli serate in compagnia di incubi inattendibili, abitati da buffi mostriciattoli e scanzonate paranoie esistenziali.

Foe e' il nome artistico di Hannah Clark, giovane artista inglese al suo debutto quest'anno sul long playing con questo Bad Dream Hotline. L'anno scorso la nostra Foe aveva parzialmente scoperto le sue carte pubblicando il singolo "Deep Water Heartbreaker" e fu un fulmine a ciel sereno. Un pezzo perfetto. Energia, sensualità e carisma da artista navigata. Un video accattivante e suggestivo a sugellare un piccolo gioiello musicale. Si era così innestata in me una trepidante attesa per l’uscita dell’ album che, dopo innumerevoli ascolti, ha solo parzialmente confermato la prima sensazione di avere a che fare con un'artista vera e completa, un talento di appena 21 anni.

Un album energico questo Bad Dream Hotline, ma con ricorrenti moderazioni pop e soft-techno. Una voce deliziosa, morbida ma maliziosa. Una chitarra elettrica che si apre spesso in accordi pieni, distorta con misura, talvolta al limite del pulito ("A Handsome stranger called death"), altre volte piu' cattiva, molto noise ("Get money", "Genie in a coke can"). La chitarra di Jamie Hince dei The Kills viene alla mente un po' in tutti brani, e quando e' introdotta o accompagnata dall'organetto simil Hammond fa davvero un figurone. Ma potremmo parlare per ore della musica di Foe senza venire mai a capo del reale valore aggiunto di questo album. Lei, Hannah Clark, capelli rossi (ma visti anche blu, gialli e rosa) colorito cadaverico ed una voce dalla quale anche un insulto personale sarebbe ben accetto. Una ragazzina travestita da donna malinconica ma tristemente sensuale, una streghetta, come le piace essere definita.

Ci sono molti brani che varrebbe la pena di segnalare perchè di piacevole ascolto e di dignitosa  fattura. 
"Cold Hard Rock" e' il primo singolo dell'album.  Diffuso ad inizio anno fa un po' da anello di congiunzione con quanto prodotto nel 2011. In esso ritroviamo energia, ambientazioni e sensazioni dark e la sensualita' un po' pazza ed un po' malinconica di Hannah.  Segnalo ancora alcuni brani che piu' di altri mi capita di voler riascoltare maggiormente, per irrazionali e animaleschi impulsi che ci viene difficile ora razionalizzare: Ballad for the Brainkeepers, Get money, Genie in a coke can e la dolcissima ed amabilissima A Handsome stranger called death.

In definitiva, un album semplice e gradevole ma che non mostra mai una chiara personalità espressiva. E' un pò come quando ti ricordi di avere un pezzo di quella meravigliosa lasagna (The Kills)  fatta da mamma nel frigo. Ti sale l'acquolina in bocca, la prendi, la prepari, la riscaldi ma poi...ecco, non è come quella mangiata il giorno primo. Buona si, ma quando in mente hai ancora certi sapori, certe emozioni, la sensazione è inevitabilmente quella di mangiare un avanzo riscaldato.  C'è pure da dire che le potenzialità ci sono, e con una migliore miscela degli ingredienti il piatto può diventare sicuramente più succulento. E non parlo della lasagna di mamma, quella è buona così com'è.

61/100

Pubblicato su Storia della Musica
Tracklist:


1. Ballad for the Brainkeepers  

2.Mother May I?  
3. Jailhouse
4.Tyrant Song
5.A Handsome Stranger Called Death
6.Get Money
7.The Black Lodge
8.Genie in a Coke Can
9.Ode to Janey Lou
10.Dance & Weep
11.Cold Hard Rock
12.Bad Dream Hotline

Brano del giorno: Sigur Ròs - "Eg anda"


Da "Valtari" (2012)



mercoledì 20 giugno 2012

RECENSIONE: Afterhours - MEET SOME FREAKS ON ROUTE 66

In allegato al numero di Marzo 2012 di XL Repubblica
Genere: Alternative Rock

Voleva essere uno scherzo, forse una serie di scherzi tra amici in gita negli States. Beh, cari Manuel &Co, lo scherzo è riuscito. Perché pensavo di andare ad ascoltare un' album aperitivo al prossimo PADANIA, in uscita il 17 aprile, ed invece mi trovo davanti ad un piccolo capolavoro.

MEET SOME FREAKS ON ROUTE 66 è una raccolta di 7 brani scelti tra i più belli della carriera degli Afterhours, più una cover d’eccezione, ri-arrangiati e registrati live in studio in alcuni tra gli studi di registrazione più famosi ed importanti d’America (tra tutti, gli Electrical Audio di Steve Albini).

Si comincia ed E’ solo febbre! Una chitarra elettrica distorta e sporca ci porta nei garage più brutali d’America. Solo la voce di Manuel a farle compagnia. Ne La Sottile linea bianca la chitarra è la stessa ma si odono stridenti inserti di altre chitarre e la batteria ed il basso a pompare il primo sangue vivo dell’album. Molto Woodstock live. Mi piace.

Chissà come avranno rifatto la Ballata per la mia piccola iena, mi sono chiesto. Sa di polvere e cactus. Immaginatevi Manuel e soci suonare in una bettola trovata per caso lungo la Route 66. Un'esperienza che mi mancava. Ed i grossi cappelli di questi mandriani ad ascoltare si muovono a ritmo. Pelle, ed è bello ed inaspettato lo stacco dato dal pianoforte e dalla calda voce di Manuel ad impreziosirlo. Le chitarre sono accennate in delicati nudi arpeggi elettrici. Emoziona, è il pezzo da bis nel concerto dei desideri. Male di Miele, e quello che notoriamente è considerato il pezzo più duro del loro repertorio, è dimezzato nella velocità ed eseguito prevalentemente con chitarre acustiche e violino. Il coro poi è leggermente diverso dalla versione originale. Una bella rivisitazione, più oscura e morbida, senza sezione ritmica, ma certamente apprezzabile. Ideale per una serata tranquilla a sorseggiare birra o del buon whisky. Il Paese è reale, l’esperimento di Male di Miele continua, ma questa volta ce lo saremmo aspettati. Chitarre acustiche, violino e cori deliranti. Quasi da spiaggia e falò. Ma ve lo immaginate un falò con gli Afterhours a suonare? Il cuore potrebbe esplodere. La Vedova Bianca, e la registrazione in presa diretta ci fa credere di essere lì con loro mentre suonano. Echi, riverberi e la batteria che sembra suonata dal vicino di casa, un po’ come in “When the levee breaks” dei Led Zeppelin.

Si chiude con un doveroso tributo al paese ospitante. Gli Afterhours, insiemeagli amici Majakovich, eseguono live (in studio) la versione di Tim Buckley della splendida Dolphins di Fred Neil. E’ come la sigla di chiusura del film che c’è piaciuto tanto. La colonna sonora della lacrimuccia spremuta dalla scena finale della storia. Quella che ci lascia pensare, che ci fa scorrere in mente con malinconia le scene più belle e ci fa stringere la mano della persona importante che ci sta accanto. Vi siete seduti accanto al bigliettaio? Fatti vostri.

Bravi ragazzi, l’aperitivo era ottimo, attendiamo ora con attesa il resto del pranzo, polenta mi sembra di capire.

VOTO: 70/100


01. È solo febbre
02. La sottile linea bianca
03. Ballata per la mia piccola iena
04. Pelle
05. Male di miele
06. Il paese è reale
07. La vedova bianca
08. Dolphins (Afterhours + Majakovich)




 

 

Brano del giorno: Squarepusher - "Drax 2"


Da "Ufalubum" (2012)




martedì 19 giugno 2012

RECENSIONE: Marlene Kuntz - CANZONI PER UN FIGLIO

Sony Music (Febbraio 2012)
Genere: Alternative Rock (in versione soft)

Canzoni per un figlio non è solo il titolo, è anche il leit motiv, l’amalgama eziologica, dell’ultima fatica di Cristiano Godano e soci. Come da lui stesso svelato nella commovente lettera al figlio contenuta nell’album, i Marlene Kuntz (anche se mai come questa volta sarebbe giusto riferirsi a Godano e basta), dedicano alcune tra le più belle canzoni del loro repertorio al figlio di Cristiano, in modo da introdurre lo stesso alle emozioni e ai messaggi della musica del papà, in modo consapevole e ponderato.

Non ho intenzione di recensire questo disco facendo paragoni o raffronti con il passato dei Marlene Kuntz, perché sarebbe un gioco al massacro che potrebbe condurre me, fan della prima ora dei Marlene, a facili quanto inutili dietrologie o moralismi. Canzoni per un figlio va valutato ora per quello che è. Un album bellissimo, suonato, cantato e “ri-arrangiato” con somma maestria e professionalità dai Marlene Kuntz assieme ai tanti ospiti illustri presenti (Roy Paci, Gianni Maroccolo, Lagashm, Alessandra Celeste e altri ancora).

Se avevo amato i Marlene Kuntz di Catartica per l’energia straziante e delirante che emanavano, da Uno in poi ho imparato a relazionarmi con una nuova vena musicale dei nostri eroi. Diversa, spiazzante, più intima nei sentimenti ma più esplicita nei contenuti. Musicalmente meno forti e “alternative” che in passato, quasi a presagire ciò che sarebbe successo nel 2012. La partecipazione a Sanremo, la pubblicazione di Canzoni per un figlio e l’offerta della propria musica ad un pubblico ulteriore rispetto al nocciolo duro dei fans di sempre. Pianoforte, archi, trombe e chitarre acustiche come non si erano mai ascoltati nelle opere dei Marlene Kuntz ma che hanno il merito di vestire le stesse di un abito nuovo, un abito di lusso, quello delle grandi occasioni.

Canzone per un figlio è l’unico inedito. Un pezzo che nonostante la sua apparente semplicità si apprezza meglio dopo una dozzina di ascolti allineandosi così alla media degli altri brani. Tra tutte e su tutte, la versione da brividi di Bellezza, una pianoforte e voce che deve emozionare e riesce pienamente nel suo fine. Canzoni per un Figlio è un’ottima compagnia per momenti intimi e speciali, dove il ricordo della forza di questi brani nelle versioni originali si accomoda sul morbido tappeto fatto di petali di rose rosse e note eteree di archi, fiati e pianoforte.

Se noi, da figli, abbiamo saltato e strillato la nostra rabbia ed il nostro disagio sulle note dei Marlene Kuntz, noi stessi, da padri o da persone evidentemente più mature, possiamo ricordarci di quei momenti avendo come sottofondo le note di questo Canzoni per un figlio. Anche se  la voglia di saltare e strillare ancora non c’è passata, così come non c’è passata la voglia di una catartica e lieve nuotata nell’aria.


VOTO: 75/100

Tracklist:

1.  Canzone per un Figlio
2.  A Fior di Pelle
3.  Trasudamerica
4.  Canzone Ecologica
5.  Pensa
6.  Stato d'Animo
7.  Serrande Alzate
8.  Io e Me
9.  Bellezza
10. Lieve
11. Canzone in Prigione
12. Ti Giro Intorno
13. Un Piacere Speciale
14. Grazie


Brano del giorno: Thony - "Colours"

lunedì 18 giugno 2012

Brano del giorno: Poliça - "Amongster"

RECENSIONE: ALT-J - AN AWESOME WAVE

Infectious: (giugno 2012)
Genere: Trip folk/ folk step

Personalmente credo che una delle soddisfazioni più grandi per chi ama scoprire ed ascoltare musica nuova, sia ritrovarsi con l’imbarazzante bisogno di comunicare al “magico cerchio” di amici “music addicted” l’entusiasmante scoperta. L’alienante mondo dei social network ha oggi potenziato tale possibilità, ma al contempo ne ha deturpato l’aurea missione, costringendoci a condividere con Chicchessia, musica che il signor Chicchessia potrebbe non apprezzare mai. Spesso si usa aggiungere la raccomandazione che si tratta di qualcosa che scotta, che devi assolutamente ascoltare perché le tue corde stanno vibrando e sei sicuro di far vibrare pure quelle dei destinatari della tua favolosa (o presunta tale) scoperta. Altre volte, senza troppi preamboli, basta dire, senti un pò qua.

Questo, molto semplicemente, vi inviterei oggi a fare. Sentite un po qua.

Dopo giorni di ininterrotti ascolti e maniacali tentativi di provare a classificare la musica degli Alt-J, mi trovo a leggere una loro intervista e scopro che loro stessi hanno soddisfatto questa mia maniacale esigenza, definendo la propria musica come “Trip folk”. Non poteva esserci una definizione migliore. An Awesome Wave è infatti una speciale quanto semplice mistura di un classico trip hop stile Portishead o Tricky  con un folk tradizionale di estrazione nord europea (i cori sembrano quelli tipici di certe ballate celtiche). Ecco quindi che i riferimenti naturali sono presto rivelati ovvero la folktronica di Four Tet, specie quello dell’incommensurabile “Rounds” del 2003 (davvero molto ricordato, specie nel brano “Tassellate”) o l’alt folk/rock dei giorni nostri (in particolare, The Maccabees e Django Django).

Siamo a Leeds, nel 2007, 4 ragazzi compagni di università, Joe Newman (voce e chitarra), Gwil Sainsbury (basso), Gus Unger-Hamilton (tastiere) e Thom Green (batteria), decidono di metter su una band che prende forme e sembianze in modo graduale, in modo casuale. Si fanno chiamare prima Daljit Dhaliwal, poi The Film. Quindi una decisione di spostarsi a Cambridge, e per un così importante cambiamento (per loro) mutuano dalla simbologia Mac l’espressione stessa del cambiamento: ALT –J, (delta).

An Awesome Wave è un disco potente, malizioso e fresco, meditativo (Intro, Interlude I, Interlude II, Matilda) ed effervescente (Breezblocks, Something Good, Dissolve Me). Enciclopedico per la capacità di contenere innumerevoli riferimenti a certa musica pop/rock (ancora, Radiohead, The XX, Wild Beasts, dei quali ultimi apriranno vari concerti), senza però mai riuscire a pieno ad inserirsi in un genere esistente ben preciso. Al primo approccio al disco, si è rapiti dalla travolgente Breezebloks, primo singolo dell’album. Macinando ascolti, è Fitzpleasure a telefonare e chiedere un altissimo riscatto.

In definitiva, se l’esordio è di tale fattura, non possiamo cha attenderci seguiti e proseliti degni del valore di questo esordio“awesome”. ALT-J, una fantastica onda. E non è una mera traduzione del titolo dell’album.

80/100

Pubblicato su Storia della Musica

Tracklist:

1.Intro
2.(Interlude 1)
3.Tessellate
4.Breezeblocks
5.(Interlude 2)
6.Something Good
7.Dissolve Me
8.Matilda
9.Ms
10.Fitzpleasure
11.(Interlude 3)
12.Bloodflood
13.Taro


lunedì 11 giugno 2012

RECENSIONE: Diagrams - BLACK LIGHT

Full Time Hobby (febbraio 2012)
Genere: Hypnagogic fusion

Sia sul piano scientifico che su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m’ha poi condotto a un così tremendo naufragio: l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”  Dott. Henry Jeckill

Un’esperienza interessante. E’ probabilmente passato senza destare grosse attenzioni ai più (almeno in Italia) questo side project di Sam Genders, leader dei Tunng del favoloso COMMENTS OF THE INNER CHORUS (i Bon Iver di quando Bon Iver non c’era ancora). Rispetto al suo passato (che speriamo abbia comunque un futuro) BLACK LIGHT è decisamente meno folk e spirituale concedendo più spazi al rock elettronico (Appetite), alla disco-funky (Tall Buildings), al jazz/fusion (Mills), senza comunque mai dimenticare le profonde radici dei Tunng (Night All Night).

L’impressione è che Genders abbia per un attimo aperto le finestre della stanza dove con solitaria malinconia suonava, chitarra piano e synth, assieme ai suoi Tunng, per farci entrare un po’ di sole destabilizzante. Il sole dà vita alla sua verve musicale, e sebbene il marchio di fabbrica sia comunque facilmente riconducibile al suo passato, BLACK LIGHT azzarda qualcosa di diverso e, per quanto mi riguarda, qualcosa di ben fatto.

Comincio da Night All Night, perché è un piccolo capolavoro. La si ascolta con gusto ogni volta rinnovato e con il volume ogni volta un po’ più alto. Cori e voce di ipnagogica memoria introducono una chitarra acustica che inaspettatamente apre le danze. Lo stesso capita anche per la bellissima Ghost Lit, un po’ più triste e meno trascinante ma sicuramente di buon livello. Tall Buildings è l’ospite inatteso. Un basso funky sposa bene le tastiere e la voce sognante di Genders tanto da meritare il classico clap clap che fa sempre molto eighties! La quarta traccia è Appetite, ed anche se siamo quasi certi che i Diagrams neanche li conoscano, sembra davvero un pezzo dei nostri migliori Bluvertigo. Una simpatica allucinazione che mette effettivamente appetito.

Quando attacca Mills, ci vengono in mente i Weather Report ed il basso di Jaco Pastorius. Le lacrime di commozione si mischiano alla tequila sunrise che immaginiamo di bere al tramonto su una spiaggia californiana all’inizio degli ormai violentati anni ottanta. Le atmosfere “danzerecce” tornano con la “giustissima” Black light, la title track. Questa inizia come proseguimento della precedente Antilope e si apre in gioiose profusioni di chitarre e synth neanche fossimo sotto gli incandescenti raggi di una soleggiatissima giornata d’agosto. “Luce nera”? Ma neanche a pensarci!

In definitiva, BLACK LIGHT è l’effervescente disco d’esordio dell’inaspettato Mr. (Genders) Hide. La miccia era probabilmente accesa da tempo senza che nessuno ci avesse fatto mai troppo caso. Il 2012 era evidentemente l’anno della deflagrazione. Una ventata d’aria fresca.

70/100

Tracklist:

1. Ghost Lit
2. Tall Buildings
3. Night All Night
4. Appetite
5. Mills
6. Antelope
7. Black Light
8. Animals
9. Peninsula


Brano del giorno: Stone Temple Pilots - "Vasoline"


sabato 9 giugno 2012

Brano del giorno: Gang of Four - "Natural's not in it"

"Gang of four is the first rock band I could truly relate to, the first to make me want to go crazy, and dance and fuck and feel like I was a part of something really cool"
Flea (Red Hot Chili Peppers)


giovedì 7 giugno 2012

RECENSIONE: Der Noir - A DEAD SUMMER

Rbl Music Italia  (marzo 2012)
Genere: Dark-wave

Viene da Roma la nuova linfa dark-wave italica. Se avete amato Bauhaus, Cure, Soft Cell o i primi Litfiba, troverete in A DEAD SUMMER parte di quelle vibrazioni senza per forza di cose ritenere che si sia di fronte a dei semplici emulatori.

Le ambientazioni sono fortemente cupe e malinconiche, il ritmo è scandito dal favoloso basso di Manuel Mazzenga (Nocturnal Degrade), anche alla chitarra, la voce, sofferente e riverberata, è di Manuele Frau (Dirty Power Games, Black Land) mentre la drum machine ed il synth sono guidati con maestria da Luciano Lamanna (Lou Chano, Ministero dell’Inferno). I tre ragazzi sembrano essere dei fuori classe della wave, e l’uso di tecnologie analogiche portano a rispolverare fedelmente, in questo buio 2012, i canoni del post-punk mondiale.

Private Cerenomy, una messa nera impreziosita da oscuri beat ed una chitarra che ricorda decisamente quella del buon vecchio Ghigo Renzulli d’annata. Done, più techno e con un morbido ma incisivo basso ad attutire la solita ficcante chitarra elettrica, sempre anni 80. Un bel cantato, che nel coro esplora inaspettatamente tonalità più alte, raggiungendo l’ascoltatore e conquistandolo.

Lontano dalle rive è il primo dei due pezzi in italiano dell’album. Se mi avessero detto che si trattava di un inedito dei Litfiba del 1983, ci avrei creduto tranquillamente. Ciò non toglie che sia decisamente bella, e Litfiba o no, è un piacere viscerale ascoltarla. Interferenze da telefonate extraurbane, una drum machine soft (-cell!) ed un basso veloce, alto nelle tonalità, accompagnano la perfetta voce di Manuel in Stranger’s Eye e introducono degnamente (non prima di qualche lezione di synth da parte di Lamanna) la splendida Oblivion. Qui una introduzione stile Tool, molto ricordati nel giro di basso, apre la scena al brano più bello ed intenso dell’album. Un piccolo capolavoro che tutti possono apprezzare per la sua facilità d’ascolto, senza che i nostri tradiscano l’idea e l’ideologia della musica che vogliono proporre.

Segue Another Day, il primo singolo dell’album, il cui video già scorrazza per il web da un po’ di mesi. Dopo 5 brani, si ha la sensazione di avere a che fare con il pezzo dalle ambientazioni meno cupe e più pop. Ma è tutto relativo. Provate ad estrapolarlo dal contesto e ad ascoltarlo da solo, e la primissima sensazione verrà parzialmente confutata. Nell’ascolto mi vengono in mente i Cure, specie per ritmo e tastiere.

Cosa vedo, il secondo brano in italiano, un po’ più trip-hop. Non mi ha convinto pienamente. A differenza della successiva Dead Summer, la title track, che arriva subito all’ascoltatore benché sia solo musicale. Ma che musica ragazzi! Si chiude con le nuvole dell’86 (Clouds of 86’). Una chitarra effetto Tears for Fears, un cantato ed, in generale, un concetto musicale molto Bauhaus, ci salutano con la soddisfazione di chi è certo di aver fatto cosa buona e giusta a dedicare del tempo all’ascolto di questo album, sicuro di farne tanti altri ancora nei giorni e negli anni a seguire.

Pubblicata su Storia della Musica il 3 luglio 2012.

85/100

Tracklist:

1. Private ceremony
2. Done
3. Lontano dalle rive
4. Stranger’s Eye
5. Oblivion
6. Another Day
7. Cosa vedo
8. Dead Summer
9. Clouds Of ’86


Brano del giorno: Motor (feat. Gary Numan) - "Pleasure in Heaven"

mercoledì 6 giugno 2012

Brano del giorno: ALT-J - "Breezeblocks"

RECENSIONE: Afterhours – PADANIA

Germi: (aprile 2012)
Genere: Rock Alternativo

Maledetti Afterhours. Provare e riuscire a sdoganare il termine Padania. Non me lo sarei mai aspettato. Ed era impresa non semplice, specie di questi tempi.

Forse in preda ad un’ansia da prestazione, timorosi di cadere in modo irreversibile nel vortice dello showbiz di massa che ne avrebbe definitivamente reciso le radici con la loro platea della prima ora, Manuel Agnelli e soci sono andati addirittura oltre. Hanno dato alla luce un disco che non ci sognavamo di ascoltare e che forse non eravamo neanche pronti a ricevere. Una sorpresa, difficile, intensa quanto raffinata e struggente. Per orecchie ed animi sensibili oltre che per ascoltatori attenti ed esigenti, PADANIA è un album complesso.

15 tracce (nelle quali, ad onor del vero, sono da considerare due inusuali “messaggi promozionali”) che si attaccano alla nostra pelle, alla nostra anima, graffiandola e lacerandola, ma sapendone sempre medicare le ferite con delle appassionate quanto sensazionali coccole melodiche (“Padania”, “Costruire per distruggere”, “Nostro anche se ci fa male”, “La terra promessa si scioglie di colpo”).

Si comincia con “Metamorfosi”, e subito si capisce che si fa sul serio. Un violoncello altalenante su corde basse ed un violino tiepido che via via si inebria di passioni deliranti, ci introducono in un ambiente cupo e decadente dove la voce di Manuel, morbida, calda e controllata, intervallata da vocalizzi che potrebbero far pensare al campionamento in loop, consegnano alla storia ed alla vita un capolavoro di rara intensità ed emozione. Si passa quindi a “Terra di nessuno”, ed il rapimento è quasi completo:

trovagli il cuore ed il debole muore

Un riff di chitarra, semplice ma prezioso, che si alterna a scosse di distorsioni aperte, accompagnano la voce di Manuel che sembra qui essere il pesce nella sua acqua più limpida e sincera. Sublime incanto. Il cuore l’hanno trovato, proviamo però a continuare.  Passiamo cos’ì a “La tempesta è in arrivo” e si è travolti dall’irrazionale e primitivo impulso di scatenare i propri impeti su due o tre chitarre distorte, accompagnate da un ritmo a tratti quasi tribale, che nel ritornello (“non puoi più decidere”) si adagia sulle nostre orecchie grazie a domati e accattivanti giri armonici.

Arriviamo così a “Costruire per distruggere”, a parere mio, il pezzo che per musica e parole (cos’altro del resto?) sembra essere il capolavoro dell’album:

sarà bellissimo fare parte della gente senza appartenere a niente mai […] neanche a Dio

Chitarra acustica, ritmo nudo e semplice e “rumori” e suoni orbitanti nell’aere quasi fossimo in una canzone di Vinicio Capossela. Ne sono passati di anni dagli “scattarramenti” di Manuel sui giovani d’oggi, ma a parte il cruccio per le primavere passate un po’ per tutti noi, non si avvertono rimpianti.

Una menzione la meriterebbero un po’ tutti i brani di PADANIA, perché davvero niente è lasciato al caso e tutto è degno di alta considerazione, finanche gli intermezzi pubblicitari. Rischierei però di sembrare un fan accecato dall’amore per gli Afterhours e per questo disco.  Invito così a procurarsi e regalarsi l’emozione dell’ascolto di quest’album, non senza prima segnalare ancora “Padania”, la title track, nonché primo singolo diffuso in anteprima. Un coacervo di emozioni in presa diretta che non può mancare nelle migliori playlist dei nostri momenti più intensi.

Concludo, a malincuore, dicendo che tornare ad emozionarsi e a vibrare con gli Afterhours era la cosa più bella che, musicalmente parlando, poteva capitami in questa prima metà di 2012. La palestra è aperta. Alleniamo il cuore e le orecchie ad ascoltare e cantare PADANIA, i live si avvicinano, e noi portatori sani di cellule infette dai germi della musica maledetta saremo lì ad emozionarci ancora con la destabilizzante miscela di pugni e carezze che pochi, forse nessuno in questo modo, oggi in Italia sa più fare.

90/100

Tracklist:

1. Metamorfosi
2. Terra di nessuno
3. La tempesta è in arrivo
4. Costruire per distruggere
5. Fosforo e blu
6. Padania
7. Ci sarà una bella luce
8. Messaggio promozionale n.1
9. Spreca una vita
10.Nostro anche se ci fa male
11.Giù nei tuoi occhi
12.Messaggio promozionale n.2
13.Io so chi sono
14.Iceberg
15.La terra promessa si scioglie di colpo



martedì 5 giugno 2012

Brano del giorno: Luca Sapio - "How did we lose it"

RECENSIONE: Django Django - DJANGO DJANGO

Because (febbraio 2012)
Genere: Elettro folk

Quando tra nome della band e titolo dell’album si trova scritta quattro volte la stessa parola, si potrebbe pensare alla banalità. Bene, scordatevi questo concetto. DJANGO DJANGO, degli scozzesi Django Django è tutto fuorché banale.

Un album che ho definito electro-folk in quanto in esso gli ingredienti che più comunemente si mescolano sono grancassa, cerchio a sonagli, chitarra ritmica e sintetizzatore. A ciò si aggiunge un cantato quasi sempre in stile Beach Boys, comunque in sè originale e ben calibrato nei suoi cori e contro cori.

Galeotto fu Default, il primo singolo dell’album, lanciato ad inizio 2011 con un video originalissimo e ottimamente cucito addosso al brano. Default è un brano che si ama da subito, che ti rapisce e ti conduce in un vortice di spensieratezza e follia. Grancassa, sonagli, ed una chitarra elettrica, nuda e cruda, che scandisce ed insegue la melodia del cantato in falsetto, ottimamente distorto. Non c’è essere umano sul pianeta Terra e in gran parte dell’Universo che non muoverebbe ininterrottamente testa collo e piede nell’assecondarne il fremito che sa sprigionare. Un capolavoro, e non esagero.

Ma DJANGO DJANGO non è solo Default, il quale già da solo basterebbe a far guadagnare una piena sufficienza a questo disco d’esordio dei nostri amici d’oltremanica. L’intro  (“Introduction”), da brividi, sembra una colonna sonora perfetta per un immaginario sequel di Arancia Meccanica, versione Western. Lo stesso intro lancia e si fonde con il successivo Hail bop, una splendida techno ballad, molto Beach Boys nelle melodie e nel cantato. Dà l’impressione di essere la sigla iniziale di questo album gioiello iniziando ad iniettare nell’ascoltatore quell’assuefazione alle sonorità che seguiranno, rendendo pressoché impossibile una interruzione dell’ascolto totale, in sequenza, dell'album stesso.

Dopo Default, il capolavoro di cui sopra, i nostri amici proseguono di gran carriera sfoderando brani uno più sfizioso dell’altro, con un uso di strumenti, tempi, voci e malizia propri di chi fa musica da tempo e nel modo migliore possibile. E non è un caso se ci son voluti ben tre anni per partorire quest'album.
Waverorms è il brano dove l’uso delle sonorità synt è più accentuato, sempre però con sapienza ed abilità, in un crescendo che conduce ai nostri consueti cori "surfing safari"! Hand of man è la sostanza stupefacente dell’album. Coro nostalgico, sfumato, su un tappeto di chitarra acustica arpeggiata e ritmo basic techno. Una ventata di calma purificante, dannata e sognante, che asciuga il sudore dei balli precedenti.

Segnalo ancora Wor (quasi un remake di Misirlou versione Dick Dale – Pulp Fiction), nella quale la voglia di ballare di Default ritorna a fare capolino, questa volta a cavallo di furiosi puledri al galoppo nella terra rossa, e Storm, semplicemente deliziosa. Bello il twist con inserti mediorientali di Life’s beach, originale la dark-folk-etno-wave di Skies over Cairo e dignitosa l’ultima “techo-Beach BoysSilver Rays.

DJANGO DJANGO è l’esordio più bello e riuscito che mi capita di ascoltare da tempo. Un album pieno, fiero, onesto e sincero. Originale e mai banale. Trascinante e sognante. Un mix di tradizione ed innovazione che mi ha totalmente e definitivamente rapito. Piccoli imprescindibili crescono.

Voto: 91/100

Pubblicata su Storia della Musica

Tracklist:

1.  Introduction
2.  Hail Bop
3.  Default
4.  Firewater
5.  Waveforms
6.  Zumm Zumm
7.  Hand of Man
8.  Love’s Dart
9.  Wor
10. Storm
11. Life’s a Beach
12. Skies Over Cairo
13. Silver Rays