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lunedì 18 febbraio 2013

RECENSIONE - My Bloody Valentine - MBV

 My Bloody Valentine - MBV (autoproduzione - 2013)


Shoegaze - Dreampop - Noise











Pubblicata su Storiadellamusica.it il 7 febbraio 2013


È uscito l'ultimo album dei My Bloody Valentine. Di già? E si perché 22 anni (tanto è passato da Loveless, l'ultimo LP) possono essere un'eternità come un battito d'ali di farfalla se parliamo del gruppo che ha cambiato i connotati alla musica tradizionale in una maniera tanto innovativa e codificante che tanti, troppi (?), in questi anni ti hanno più o meno fatto pensare a loro.





Prima di cominciare lasciatemi dire che se siete alla ricerca di una recensione che soddisfi le ansie da tecnocrati della musica o volete trastullarvi con iperboli che incastrino sublimemente espressioni come shoegazing , stratificazioni, riverberi, saturazioni, fuzz, muri di suono, chitarre noise, dream pop, e via dicendo, andate pure a leggervi le migliaia di recensioni che inonderanno a breve l'orbe webbaqueo, io cercherò semplicemente di trasmettere ciò che questo disco mi ha lasciato, dicendovi, possibilmente, se mi è piaciuto e nel caso quanto. 
Non è tracotanza banalotta o smania di voler essere diversi e migliori, ma semplice invito a spogliarsi della ruggine che 22 anni di ininterrotta pioggia acida hanno sedimentato nelle nostre orecchie e nella nostra testa. Se è vero che l’attesa del piacere è essa stessa piacere, e anche vero che nel frattempo il mito ha alimentato un mostro, con parziale verità anche per il viceversa. E si perché se fino al 2012 (concedo il beneficio del dubbio all’appena cominciato 2013) la musica più in voga “in-certi ambienti” si è rifatta in modo abominevole al prototipo sviluppato da band come My Bloody Valentine e The Jesus and Mary Chain ciò è dovuto, ma è una mia opinione, più alla ricerca spasmodica dell’inesplorato rivendibile come esclusiva sciccheria che ad altro. Non che le suddette band non abbiano rappresentato delle pietre miliari nella storia della musica e nella mia personale formazione musicale. Ma neanche giusto sarebbe idolatrare fino alla fanatica adorazione chi, alla fine, ha semplicemente fatto, più che onestamente e molto meglio di altri, il proprio mestiere di artista che, per definizione, deve metterci del suo.




I 25 anni di interrotta carriera dei My Bloody Valentine continuano oggi con l’uscita, scoordinata, originale ma un tantino schizofrenica, di questo MBV. Quando molti ormai avevano perso ogni speranza il 2 febbraio 2013 Shields e soci annunciano via social network (e si, oggi usa così) l’uscita, dalla mezzanotte, del loro nuovo album, l’atteso, più volte annunciato e poi sempre rimandato,  follow up di Loveless. Mentre il sottoscritto dormiva beatamente, che tanto il giorno dopo sarebbe stato lo stesso, migliaia di fan aspettano la mezzanotte sul portale più sanguinoso del pop mondiale per scaricare e ascoltare prima di tutti l’ottava meraviglia dell’umanità. Il sito va in tilt, crasha a ripetizione lasciando molte bocche asciutte e tanti sogni turbati. Davanti ad un muffin ai mirtilli e un ottimo cappuccino con tripla schiuma, comodamente seduto, tre giorni dopo arriva anche il mio turno.



 
Tutto d’un fiato allora, il cappuccino. Poi comincio seriamente l’ascolto, che si riferisce necessariamente alla versione digitale, l’unica ad oggi rilasciata e considerando l’attendibilità delle dichiarazioni della band, l’unico dato sicuro e incontrovertibile.
Se l’idea è di porsi in scia per dare un seguito a Loveless, la prima traccia, She found now, spiazza un po’. Il magma sonoro è lento, ruvido, più sporco e molto meno decifrabile di quanto avviene mediamente nel suddetto capolavoro. Per quanto la melodia sia riconoscibile e apprezzabile, non c’è quell’immediata empatia che l’assuefazione ai suoni di Loveless avrebbe richiesto. Cosa che in parte accade con la successiva Only Tomorrow. Potente e dal piglio più vivace e deciso, sebbene sempre sepolta da una nube tossica di rumore in bassa fedeltà (che fatica non dire noise), ricorda il passato senza necessariamente ricalcarlo pedissequamente. Un primo vero segnale di vita nuova lo si ha con la tripletta Is this and yes/ If I am/ New you. Organetto e vellutata drum machine a fare da tappeto ai lamenti da sirena di Bilinda Butcher (Is this and yes), vaneggiamenti elettronici su melodie celestiali e ritmi sgonfi e sfibrati (If I am) un travolgente passo techno pop/hip pop (New you) passeranno probabilmente alla storia come il momento più pop del dream dei My Bloody Valentine.




In another way è la chitarra di Tom Morello dei Rage against the machine che ti appare in sogno a comunicarti il nuovo sodalizio amoroso con Satomi Matsuzaki, la voce nip-pop dei Deerhoof. Un sogno che viene bruscamente interrotto dal rave party scatenato da Nothing is con il suo loop di magnifico e pulsante fracasso, sempre uguale a se stesso eppure maledettamente necessario e dalla confusa e caotica (per alcuni un pregio, non per me) Wonder 2. Un mix perfetto, ex cathedra, tra sogno e rumore è ancora ben espresso in Who sees you.




Ho sempre ritrovato nel suono dei My Bloody Valentine un lato più duro e oscuro ed uno più sognante e mieloso che nel corso degli anni ha raggiunto quell’equilibrio perfetto nella miscela che gli ha resi unici. MBV, nei suoi variegati momenti, estremizza queste due facce rompendo in parte l’incantesimo del suddetto canone di perfezione alla ricerca di qualcosa che non venisse percepito come banale ripetizione o tombale autocelebrazione. 






Quanto l’esperimento sia effettivamente riuscito lo dirà il tempo e l’eventuale susseguirsi degli ascolti. Sta di fatto che i MBV, quantomeno, hanno finalmente placato le ansie di chi ha aspettato tanto.  Se la pretesa di qualità e quindi la soddisfazione dovesse essere proporzionata al tempo dell’attesa, saremmo autorizzati a sentirci davvero delusi. Preso invece per quello che è, sic et simpliciter, MBV, è un album valido, onesto, difficile per certi versi, ma lascia alla fine piacevolmente rinfrancati. In tanti hanno fatto quello che Shields e soci hanno teorizzato anni fa, ma quando il maestro scende (o sale?) nuovamente in campo, accorgersi che sia tutta un’altra musica, è rassicurante e rende finalmente giustizia a chi le scarpe le fissava non per vanità, ma per cambiare il destino delle cose.



lunedì 11 febbraio 2013

ALBUM DELLA SETTIMANA: L'Officina della Camomilla - SENONTIPIACEFALOSTESSO UNO



 L'Officina della Camomilla - SENONTIPIACEFALOSTESSO UNO (Garrincha - 2013)

Indie rock - Alt rock












Il bello di avere 20 anni è che non sai di preciso cosa ti aspetta dopo e ti godi liberamente ed ingenuamente il tuo tempo. Il brutto di non avere più vent’anni é dimenticarsi di averli avuti o ricordarsene così bene da provare una grande, dilaniante, urticante invidia. 



 


Io vent’anni non li ho più da un pezzo eppure non riesco (ancora?) a covare odio o porgermi con saccente atteggiamento di superiorità nei confronti di chi fa musica in Italia con il piglio del ventenne scanzonato ma assolutamente non sprovveduto. Sarebbero tanti i casi da tirare in ballo (i nomi li sappiamo tutti, non voglio elencarli per l’ennesima volta) di chi in questi anni ha diviso gli ascoltatori e turbato il sonno di parte della nostra critica musicale, riscontrando, a dire il vero, un giudizio quasi sempre positivo, a volte clamoroso, nell’audience di riferimento. 




Una cosa però mi è ormai chiara. Ciò che non scende a certa critica e a certo uditorio colto è rivolgersi all’immaginario visivo e sonoro internazionale, senza nascondersi dietro una lingua che ancora, qui da noi, non capisce né chi la canta né chi l’ascolta (e poi ne scrive pure). Siamo infatti rimasti noi e i greci in Europa a dire ancora rèport al posto di repòrt sudando freddo se il film è in lingua originale con sottotitoli. Succede allora facilmente che se i Babyshambles cantano “andatevene affanculo per sempre” o gli Arctic Monkeysche cambia quando il sole tramonta,  su basi musicali assolutamente valide e travolgenti, da noi sono indiscutibilmente considerati icone di una nuova brit invasion che riempie prime pagine, locali cool fino ad approdare addirittura ai contenitori del calcio (vai a vedere però che in Inghilterra o oltreoceano il pubblico “colto” li considerava come dei ragazzini che cantavano da ragazzini, idolatrati da ragazzini ubriachi, un po’ come succederebbe oggi qui da noi). 

Se tanto mi dà tanto, io apprezzo il tentativo di rimanere musicalmente italiani rivolgendosi a sonorità che sono indiscutibilmente legate ad uno scenario che non è classicamente il nostro. Non c’è niente di male e non è certo la prima volta che accade qui da noi. Ci si mostra senza foglia di fico, in pasto ad un pubblico che osserva ma soprattutto ascolta morbosamente, anche perchè finalmente ci capisce qualcosa di quello che ascolta.

 


Coraggio questo che va premiato se il risultato finale è roba come questo "SENONTIPIACEFALOSTESSO UNO", primo LP del fenomeno mediatico de L'Officina della Camomilla, da Milano. Se non ti piace fa lo stesso, ma se ti piace, non te ne vergognare, ballalo, cantalo, magari in disparte se sei vecchio più di quel che i tuoi documenti dicono ed hai una paura fottuta di sembrare ridicolo. I testi sono irriverenti, ma lucidi e sinceri, il sound è curato e spesso ("La tua ragazza non ascolta i beat happaning", "Ho fatto esplodere il mio condominio di merda") decisamente accattivante.



Se hai vent'anni, goditi il tuo tempo, compresa la sua colonna sonora, dove L'Officina della Camomilla non deve mancare. Se non li hai più, non lasciare che il loro ricordo, belli o brutti questi siano stati, ti assilli fino a farti viver male il tuo modesto presente. 




Tracklist


  1. Dai Graffiti del Mercato Comunale
  2. Morte per Colazione
  3. La Tua Ragazza Non Ascolta i Beat Happening
  4. Agata Brioches
  5. Un Fiore per Coltello
  6. Città Mostro di Vestiti
  7. Lulù Devi Studiare Marc Augé
  8. Le Mie Pareti Fluorescenti di Nord Africa
  9. La Provincia non è Bella da Fotografare
  10. Ho Fatto Esplodere il mio Condominio di Merda
  11. Pegaso Disco Bar
  12. Ti Porterò a Cena sul Braccio della Ruspa
  13. Senontipiacefalostesso

 Sito della band.

lunedì 4 febbraio 2013

ALBUM DELLA SETTIMANA: Valentina Gravili - ARRIVIAMO TARDI OVUNQUE

Valentina Gravili - ARRIVIAMO TARDI OVUNQUE (2013 -Carbon cook)

Cantautori - Alt folk










"La paura degli esseri umani è paura di essere umani", cantano i Marta sui Tubi. Concetto che deve essere ben chiaro anche a Valentina Gravili. Pugliese, cantautrice. Di quelle che cantano in italiano, come gli italiani alla fine sanno fare meglio di tutti. Lo fa poi come gli italiani che non hanno bisogno di mezzucci o facili riferimenti esterni per apparire quello che poi non sono. Un italico essere umano che non si nasconde, si mostra anzi in modo fiero, probabilmente perchè consapevole della marcia in più in dotazione.




A vederla penseresti a PJ Harvey, a sentirla è Nada, ma quando l'ascolti, tutto è meno immediato, scontanto e semplice. Sound ricercato e a tratti d'avanguardia, con ricorrenti rimandi al folk, dal country americano alla nostra tradizione meridionale, con variabili e varianti di fiati jazz, giochi elettronici, tamburi tribali e riff di chitarre blues. Testi mai banali interpretati con il piglio e la sfacciataggine di chi non ha paura di riaffermare la desueta convinzione che c'è dell'arte nello scrivere i testi delle canzoni.




Un album perfetto per tornare a fare quello che ormai non si fa più. Cantare in auto, tutti insieme.  La lineup solitamente era voci bianche dietro, mamma al finestrino e al volume, conducente alla voce solista e percussioni sul volante.

Per tornare a cantare, di gusto.

Tracklist

1. Il finimondo
2. Arriviamo tardi ovunque
3. Pare che fuori pioverà
4. Guerriglia d'Oriente (mentre il sole fuori insorge)
5. La mappa dei punti deboli del mondo
6. La saggezza è roba per giovani
7. Cruda
8. Mosca cieca
9. Domenica mattina

Sito di Valentina Gravili.