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giovedì 26 luglio 2012

RECENSIONE: Japandroids - CELEBRATION ROCK

Polyvinyl: (giugno 2012)
Genere: lo-fi/hardcore


All’inizio furono gli  Hüsker Dü, i Replacement, i Dinosaur Jr, i Meat Puppets, gli Stone Temple Pilots, i Foo Fighters poi arrivarono gli Wavves, i No Age, i Condo Fucks, i Fucked Up, i Cymbals Eat Guitars e da ultimo i Cloud Nothing. Il lato soft ed evanescente dell’hardcore. E potrei pure fermarmi qui.

Perché Celebration Rock, l’ultimo album dei canadesi Japandroids, sulla falsa riga del precedente Post-Nothing, è una bella e sana immersione in quel mondo che fu, neanche troppo tempo fa, e che continua oggi ad essere senza, apparentemente, alcuna soluzione di continuità. Risulta quindi difficile dire se oggi noi, contemporanei dei contemporanei, siamo di fronte ad una coda di questo pseudo movimento, costola gentile dell’hardcore, o siamo in una fase già revivalista dello stesso. Sarei tentato di dire post-hardcore, se tale etichettatura non fosse già stata prenotata per definire dell’altro, che non c’entra fortunatamente niente con i Japandroids. Potrei dire “soft hardcore” se non odiassi gli ossimori, specie nei generi musicali. Allora speed hardcore? Potrebbe pure starci se la velocità non fosse già prerogativa di un movimento che, ricordo, deriva pur sempre direttamente dal punk. Suggerirei quindi per oggi di andare oltre le definizioni e provare semplicemente a commentare quest’album.

Un avvertimento prima di cominciare. Se avete voglia di ascoltare Celebration Rock ininterrottamente, recatevi prima in farmacia a comprare una confezione di Moment o di altro analgesico che possa alleviare il vostro mal di testa. 35 minuti tirati all’inverosimile manco fosse l’ultimo giorno in cui il duo canadese composto da Brian King e David Prowse possa suonare su questo pianeta. Una scarica continua, esagerata e a tratti smodata di rullate frenetiche, chitarre dolcemente distorte in veloci susseguirsi di accordi quasi sempre totalmente aperti e amplificati con massicce dosi di riverberi. Il cantato, così come il coro, è poi sempre strillato ed esasperato, sebbene leggermente in secondo piano rispetto al “rumore” musicale di sottofondo. A tratti la voce dà l’impressione di essere filtrata da un effetto megafono, quasi a sottolinearne la rabbia e l’esasperazione propria di chi vuole gridare ad una folla incandescente pronta ad assecondare tale impeto.

Si comincia con i fuochi d’artificio di “The Nights of wine and roses” che introducono una batteria che sembra suonata dal vicino dello studio di registrazione nel suo garage tanto è sorda e sfumata, fino ad arrivare al malizioso e fresco riff di chitarra che accompagna le due voci cantate/strillate  all’unisono in un delirio da celebrazione del rock. E’ un pezzo bello ed intenso, dopo il quale ci si aspetterebbe forse una pausa per riprender fiato. Ed è quello che fa presagire il dolce arpeggio introduttivo di Fire’s Highway. Ma è solo un’illusione perché dopo i primi 25 secondi la locomotiva riparte macinando celeri rullate e staffilate di accordi di chitarra, distorta sempre con delicatezza ad accompagnare il solito istinto animalesco alle voci. La sensazione di non fermarsi mai viene confermata dalla successiva Evil’s Sway: stessi ingredienti, stessa forza, perché squadra vincente non si cambia. Ma le mie orecchie gridano vendetta ed allora chiedo rifugio alla successiva “For the love of Ivy”. Niente da fare, “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Ma questa volta il vortice di energia e l’istinto primordiale scatenato è così forte e trascinante che il mal di testa balla, salta e poga assieme a me.

La successiva Adrenalin Nightshift a confronto sembra una tranquilla e romantica ballad, potere del relativismo uditivo indotto dall’assuefazione (oramai completa) alle sonorità di Celebration Rock. Younger Us è il pezzo che non aggiunge né toglie niente al discorso intrapreso sin ora, a differenza della successiva The House That Heaven Built, la perla dell’album. Ritmo ed impulsi animaleschi sembrano finalmente, se non domati, quantomeno ricondotti ad una disciplina sonora e persino il cantato sembra seguire un registro classico (mi ha ricordato il Bruce Springteen di Born to Run, per intenderci). Registro vocale che si conferma e si cristallizza nella successiva, ultima traccia, Continous Thunder. Un tappeto di chitarra assordante fatto da due accordi ininterrottamente ripetuti in loop, un ritmo di batteria stile intro di Wake me up when September ends dei Green Day (quindi molto militaresco) ed in generale un atteggiamento che sa di commiato verso l’ascoltatore che finalmente può tirare un sospiro di sollievo consentendo al vento di asciugare il sudore dei fremiti convulsivi dati dalle 7 tracce precedenti.

Un bel lavoro, ottimo se si fosse inserito qualcosa che potesse rompere la monolitica attitudine a correre, strillare e debordare. No, non volevo mica la ballad a tutti i costi,  ma il Moment corro davvero a prenderlo. 


70/100
(Pubblicata il 26 luglio 2012 su Storia della Musica)
Tracklist:

01. The Nights of Wine and Roses
02. Fire’s Highway
03. Evil’s Sway
04. For the Love of Ivy
05. Adrenaline Nightshift
06. Younger Us
07. The House that Heaven Built
08. Continuous Thunder


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