Big Ups - EIGHTEEN HOURS OF STATIC (2014, Tough Love / Dead Labour)
#punk #hardcore #posthardcore
Del post-hardcore, nella sua accezione meramente emotiva e musicale,
non ci stancheremo mai, specie se fatto come Cristo comanda. Succede così che quando scopri che i Big Ups, giovane formazione di Brooklyn
(Brendan Finn (batteria), Joe Galarraga (voce), Amar Lal (chitarra), Carlos
Salguero (basso)) sposano senza mezzi termini, in questo loro disco d’esordio, Eighteen Hours of Static, la causa di Fugazi, Shellac, Jesus Lizard, Faraquet, Lungfish, Quicksand e così via, niente risulta stantio o
freddamente preconfezionato, perché niente suona come mera replica e tutto sembra
far pensare ad una continuazione, ad un proseguimento, all'aggiunta del proprio contributo, unico e
distinguibile, a qualcosa che ha dato tanto e continuerà a dare tanto alla
musica.
Parte Body Parts e sembra che, lo dico seriamente, non hai bisogno di
nient’altro al mondo. 2:27 tirati
fino alla morte. Un basso che pulsa nelle orecchie come quando ai concerti ti
dirigi, o semplicemente ci finisci, sotto il palco, sotto la cassa che pompa in
modo ignorante pulsazioni malsane, sporche, gracchianti ma tonde. Si resta
ipnotizzati, parte l’estasi e ci si chiede da quanto tempo non si ascoltasse
qualcosa del genere. Poi urla disperate ma vestite d’armonia. Batteria scarna
ma potentissima. Un capolavoro. Potrebbe bastare anche solo questa prima
emozione per riprendere fiato, staccare tutto e correre dall’amico di turno e
godere assieme del brivido unico che il cervello collegato alle tue orecchie
già martoriate ti sta regalando. Invece no. Hanno appena cominciato.
L’impressione è di essere saliti
su di un’auto scassata che sta per intraprendere una folle corsa senza
apparenti coordinate. 11 brani che in una sola occasione superano i tre minuti
e che un paio di volte stanno sotto i due. Così quando pensi che Grin (il secondo miglior pezzo dell’album)
sia destinata a lenta marcia metallica alla Shellac, con la chitarra che sembra suonata da Albini in persona, esplode la vena più veloce e punk della band,
per poi ritornare nel lento perimetro della danza plumbea alla Swans.
Goes black è una mitragliata
tesa di rabbia e desolazione giovanile bollita nel magma di un basso veloce e caparbio
e fatta a fette dalle lame della chitarra elettrica appena affilata. Con Justice l’hardcore annusa ora il funk ora il metal ora il post-punk (apparentemente)
scanzonato dei Gang of Four. Wool (altro pezzo indispensabile del
disco) potrebbe vincere nella categoria miglior
momento pop del disco, quasi degli Slint
goes Audioslave, cosa che a pensarci bene potrebbe pure trovare sintesi nel
pensiero Fugazi. Se Tmi
e anche un po’ la conclusiva Fine Line
sono sempre gli Slint, quelli di Tweez stavolta, Little kid e Atheist
Help-self sono i Black Flag, contornati
ora da ritmi lenti e rimbombanti ora
da pure deflagrazioni di taglientissime chitarre punk. Da segnalare ancora Disposer con il suo accattivante dub-grunge e Fresh meat che non avrebbe
sfigurato neanche in Bleach.
Big Ups, Eighteen Hours of
Static, una rabbia vera, una devozione pura, l’abilità innata nel pescare
ancora a piene mani nel movimento hardcore
e post-hardcore per dare a vecchie
emozioni un sapore nuovo, con nuove canzoni che continuano un percorso che
sembra non voler mai porre la parola fine alla sua inesauribile energia. Senza
paura di fare i revivalisti e con il piglio di chi ti fa pensare, anche solo per
un attimo, che il post-hardcore lo stanno
vivendo e suonando loro, ora, per la prima volta.
Il 2014, per quanto mi riguarda,
è l’anno del ritorno del punk/hardcore/post-hardcore
ai massimi livelli. Oltre agli abbondantemente (e giustamente) celebrati Cloud Nothings, White Lung, Parquet Courts
bisogna assolutamente considerare questi Big
Ups. Potrei fermarmi anche qui nella mia costante ricerca di buona musica,
a meno che qualcun altro sappia fare di meglio. Facciamo così. Avvisatemi solo
se altri arriveranno a questi livelli, o giù di lì.