Non ricordo di preciso la penultima volta che mi ritrovai ad
auto-infliggermi sculacciate al ritmo di grancassa, come a segnare il tempo dei
mie salti in avanti su di un piede solo, stile Angus Young, impugnando
in modo precario una pinta di Guinness e vaneggiando improbabili natali
celtici. Credo di ricordare fosse una festa di San Patrizio, in Toscana, agli
albori del XXI secolo, ma i dettagli ora mi sfuggono e potete immaginare il
perché.
I Dropkick
Murphys, dalla periferia di Boston, attivi dal 1996, veri e propri
idoli in patria, giungono oggi al loro ottavo album in studio. Per chi non li
conoscesse, loro sono un gruppo che molto semplicemente fonde il punk/hardcore
con la musica folk di matrice celtica. Una curiosa ma efficace mistura che
visse il suo periodo d’oro nei primi anni ’80 del secolo scorso, quando dalla
fuga di massa dal punk imborghesito si esplorarono diversi orizzonti nuovi, tra
i quali il punk folk di band come Pogues prima e Black
47, Flatfoot 56 e Dropkick
Murphys dopo (nel mezzo, ovviamente, c’è tutto il periodo
hardcore).
Signed
and sealed in blood segue il meraviglioso e decisamente più
complesso Going out in Style (2011), un concept album sulla
storia di un immaginario immigrante irlandese, Cornelius Larkin, che
vide, tra gli altri, la partecipazione niente meno che del Boss, Bruce
Springsteen, a duettare con Ken Casey, bassista e voce
della band, nella cover di Peg O’ My Heart, un brano della tradizione
popolare nord americana.
L’album odierno è qualcosa di volutamente diverso. Come loro
stessi affermano, si tratta di un album concepito per inebriare e far ballare le
masse. Uno sfogo quindi, dopo le fatiche che un concept album
inevitabilmente porta con sé. Uno sfogo razionale, se è vero com’è
vero che la ricerca del consenso ampio, che tra l’altro non mancava loro,
non viene quasi mai per caso. E’ infatti innegabile la forza e l’immediatezza
di gran parte dei brani di quest’album. Su tutti “Prisoner’s song”, una ballata
irish, introdotta da banjo e fisarmonica ritmati dal solo battito di mani e
scandita dalle urla in coro dell’intera band in perfetto stile punk/oi!. Un
tripudio di energia che non fatico ad immaginare mentre fa scaldare, ballare e
pogare vorticosamente le copiose folle che generalmente frequentano i loro
live.
La stessa sensazione era stata tra l’altro introdotta da
“The boys are back”, il cui coro è fatto apposta per essere interpretato
all’unisono dalle migliaia di persone alle quali il cantante rivolge il
microfono per testarne ugole e memoria, gente che, almeno in quel momento, non
ne vuole sapere di debiti, tasse, due di picche, riunioni di condominio.
Incredibilmente bella è pure la più lenta ed orgogliosamente
impostata “The Season’s upon us”, così come degne di ascolto sono pure the
“Rose Tattoo” (presente pure nella copertina dell’album) e “Out of our heads”.
Rimangono nella media dello stile celtic punk più o meno tutte
le altre tracce. Assolutamente da dimenticare invece l’esperimento, alquanto kitsch,
di rock&roll in salsa irlandese di “Out on the town”, che
tra l’altro sembra ricordare con una certa insistenza l’Ob-la-di ob-la-da
del Fabulous Foursome.
Non ricordo di preciso la penultima volta che mi ritrovai ad
auto-infliggermi sculacciate al ritmo di grancassa, ma l’ultima volta ce l’ho
bene in mente, anche perché non è servita alcuna spinta alcolica a stimolarla.
Sono infatti bastate le prime note di Signed
and sealed in blood. Provare per credere.
Ci provo, mi spiego, mi sforzo di scrivere una recensione
sull’ultimo disco dei Marta sui
Tubi, Cinque,
la Luna e le Spine, senza lasciarmi condizionare, nel bene o nel
male, dalla loro recentissima apparizione all’ultimo festival della
canzone italiana, si, quello di Sanremo.
Quindi devo… dimenticare le luci, l’orchestra, le gengive
irritanti della Venier, le lezioni di musica di Luzzatto Fegiz, lo sguardo
intrigante di Giletti in prima fila, l’eccessiva miscela di rosso ramato nella
tinta di Paolo Limiti, le domande impastate di saliva di quel simpaticone di
Mollica, le farfalline, le mummie secolari, plastificate, in sontuose pellicce
in platea, la réclame, l’HD sul canale 501, lo sdoganamento o il
tentativo di sdoganare quanto di più autentico, intimo e realmente alternativo
ed indipendente in Italia si aveva. Margaritas ante porcos o suini che
devono essere educati alle perle, questo sarebbe il dilemma. Nel dubbio, non
cerco la risposta e torno sul disco, e davvero dimentico, una volta per tutte,
ciò che è stato.
Cinque sta per una serie di cose. Il numero degli
album in studio dei Marta sui
Tubi e la formazione a 5 che dura ormai da 5 anni. Annunciato come
l’album più ambizioso e sperimentale della loro carriera, l’ascolto lascia
subito impressionati per la notevole qualità della registrazione e del missaggio
che a tratti sfiora la patinata perfezione. Niente di male, anzi. Lo metti su e
l’ambiente magicamente si riempie di un suono pieno e morbido, caldo,
rassicurante. Ma, almeno per una volta, vorrei partire dalle note dolenti per
dedicare il finale alle cose migliori, perché il mio affetto per i Marta sui
Tubi è tale da voler concedere al lettore il piacere di portare con sé ciò che
mediamente rimane più impresso, le prime righe e, generalmente, le ultime.
Parto quindi dalle noti dolenti, semplicemente i pezzi che
mi sono piaciuti meno, poco, per niente. La ladra sembra più che altro
una cover di una ballad di successo di John Mayer
piuttosto che un pezzo di quel gruppo che inconsciamente ho sempre ritenuto la
versione italica dei Violent
Femmes, Grandine che nei cori del ritornello fa
esibire l’ugola di Giovanni Gulino in performance che, sempre inconsciamente,
lo collocano tra l’ultimo Battiato e Mango. Un’occasione ghiotta per rialzare
l’ “emozionometro” la dà l’ultima traccia, Polvere sui Maiali.
Un blues sghembo, cantato un po’ alla Tom Waits
da Carmelo Pipitone, il genio della sei corde acustica più talentuoso in
Italia. Un'occasione che avrebbe potuto essere sfruttata meglio se dopo una
partenza più che convincente non si rinchiudesse praticamente subito in un
ridondante finale pseudo-psichedelico che considerando i suoi 3:29 sa un po’ di
coitus interruptus. Ma la cosa più imbarazzante è un'altra e si chiama
Il Collezionista di vizi. Non so quanto le due cose siano collegabili,
ma ascoltandola mi sono un po’ venute le stesse bolle sulla pelle che mi
spuntarono quando ascoltai per la prima volta “Il mio corpo che cambia” dei Litfiba.
Riconoscevo quella voce, ma mi sentivo come la ragazzina con l’apparecchio ai
denti, bruttarella ma interessante che era stata appena tradita per la bellona
simpatica ma un po’ tonta.
E’ difficile dire tutto ciò, per me che seguivo i concerti
dei Marta sui
Tubi quando ai concerti eravamo in pochissimi illuminati e
tutti con le ugole in fiamme nel tentare di stare dietro alle devastanti apnee
liriche di Gulino, sgranando gli occhi di fronte alle extraterrene contorsioni
di Pipitone alla chitarra.
All’interno delle 11 tracce delle quali è composto l’album
ci sono però pezzi sicuramente validi ed assolutamente apprezzabili. Su tutti Tre,
un punk blues al fulmicotone, introdotto da un assolo di batteria con
forte eco, quasi da live, al quale segue una languida chitarra old
blues ed un cantato impostato quasi a scimmiottare i diversi cloni
italiani di Elvis degli anni d’oro. Fino a giungere ad un’esplosione pazza ed
irrefrenabile di suoni e rime velocissime come solo i Marta sui
Tubi in Italia hanno saputo fare. Tra le cose belle ancora Dispari,
il pezzo scartato a Sanremo (niente, non ce la faccio a non pensare lì).
Coro gregoriano su base folk rock, ad introdurre un ritmo travolgente ed
un'orecchiabilità da filastrocca musicata che nella sua semplicità e delicata
melodia, condita da arrangiamenti da grandi occasioni, ne fanno un pezzo di
assoluto spessore che induce agevolmente allo scanzonato fischiettio. Ancora
decisamente valide ma un gradino sotto le due tracce appena menzionate sono Il
primo volo, la prima traccia dell’album, e Vorrei. Entrambe di
forte impatto emotivo e con una cura particolare degli arrangiamenti e dei
testi, hanno semmai la pecca, se di pecca si tratta, di ammiccare troppo
alla melodia della canzone leggera nazionale.
Menzione a parte la merita Vagabond Home, il primo
pezzo in inglese dei Marta sui
Tubi, se si esclude la cover di Tomorrow never knows dei Beatles
in C’è gente che deve dormire. E’ una ballad alt folk/
blues che per quanto denoti inevitabili lacune nella pronuncia, dimostra
delle potenzialità che la band ha fortemente incise nel proprio DNA e che sono
sicuro, curate con un certo metodo, potrebbero portare i nostri eroi a ben più
ampi orizzonti. E' questo uno dei momenti più intensi dell’album con un finale
in crescendo di fumi psichedelici che questa volta, a differenza di Polvere
sui Maiali, è ben calibrato nella collocazione e nella durata.
Non voglio fare moralismi o discorsi sull’etica nella
musica, per carità, trovo sia stupido e da stupidi farlo ora ed in questa
occasione, anche se altri saranno pronti a farlo, ne sono sicuro. Certo è che se
il prezzo da pagare, per noi fan della prima ora, per permettere ai Marta sui
Tubi di aprirsi ad un pubblico più ampio, arrivare sulla bocca
delle massaie o delle amate/odiate Dominique (questa la capiscono in
pochi), arrivare a vendere un buon numero di dischi in più e permettersi
un’esistenza un po’ più serena, dopo tutto non è andata poi così male. Altri in
passato hanno fatto la stessa cosa, ed in termini di mera qualità del prodotto
i Marta
sui Tubi possono essere tranquillamente considerati quelli che si
sono sdoganati meglio, quelli che hanno tradito meno il loro spirito originario
e autentico. Di questi tempi, veramente, non è poco.
Tracklist
Il Primo Volo
Dispari
I Nostri Segreti
Vorrei
Vagabond Home
Il Collezionista Di Vizi
Tre
La Ladra
Maledettamente Bene
Grandine
Polvere Sui Maiali
Ci provo, mi spiego, mi sforzo di scrivere una recensione sull’ultimo disco dei Marta sui Tubi, Cinque, la Luna e le Spine,
senza lasciarmi condizionare, nel bene o nel male, dalla loro
recentissima apparizione all’ultimo festival della canzone italiana,
si, quello di Sanremo.
Quindi devo…
dimenticare le luci, l’orchestra, le gengive irritanti della Venier, le
lezioni di musica di Luzzatto Fegiz, lo sguardo intrigante di Giletti in
prima fila, l’eccessiva miscela di rosso ramato nella tinta di Paolo
Limiti, le domande impastate di saliva di quel simpaticone di Mollica,
le farfalline, le mummie secolari, plastificate, in sontuose pellicce in
platea, la réclame, l’HD sul canale 501, lo sdoganamento o il
tentativo di sdoganare quanto di più autentico, intimo e realmente
alternativo ed indipendente in Italia si aveva. Margaritas ante porcos
o suini che devono essere educati alle perle, questo sarebbe il
dilemma. Nel dubbio, non cerco la risposta e torno sul disco, e davvero
dimentico, una volta per tutte, ciò che è stato.
Cinque sta per una serie di cose. Il numero degli album in studio dei Marta sui Tubi
e la formazione a 5 che dura ormai da 5 anni. Annunciato come l’album
più ambizioso e sperimentale della loro carriera, l’ascolto lascia
subito impressionati per la notevole qualità della registrazione e del
missaggio che a tratti sfiora la patinata perfezione. Niente di male,
anzi. Lo metti su e l’ambiente magicamente si riempie di un suono pieno e
morbido, caldo, rassicurante. Ma, almeno per una volta, vorrei partire
dalle note dolenti per dedicare il finale alle cose migliori, perché il
mio affetto per i Marta sui Tubi è tale da voler concedere al lettore il
piacere di portare con sé ciò che mediamente rimane più impresso, le
prime righe e, generalmente, le ultime.
Parto quindi dalle noti dolenti, semplicemente i pezzi che mi sono piaciuti meno, poco, per niente. La ladra sembra più che altro una cover di una ballad di successo di John Mayer piuttosto che un pezzo di quel gruppo che inconsciamente ho sempre ritenuto la versione italica dei Violent Femmes, Grandine
che nei cori del ritornello fa esibire l’ugola di Giovanni Gulino in
performance che, sempre inconsciamente, lo collocano tra l’ultimo
Battiato e Mango. Un’occasione ghiotta per rialzare l’ “emozionometro” la dà l’ultima traccia, Polvere sui Maiali. Un blues sghembo, cantato un po’ alla Tom Waits
da Carmelo Pipitone, il genio della sei corde acustica più talentuoso
in Italia. Un'occasione che avrebbe potuto essere sfruttata meglio se
dopo una partenza più che convincente non si rinchiudesse praticamente
subito in un ridondante finale pseudo-psichedelico che considerando i
suoi 3:29 sa un po’ di coitus interruptus. Ma la cosa più imbarazzante è un'altra e si chiama Il Collezionista di vizi.
Non so quanto le due cose siano collegabili, ma ascoltandola mi sono un
po’ venute le stesse bolle sulla pelle che mi spuntarono quando
ascoltai per la prima volta “Il mio corpo che cambia” dei Litfiba.
Riconoscevo quella voce, ma mi sentivo come la ragazzina con
l’apparecchio ai denti, bruttarella ma interessante che era stata appena
tradita per la bellona simpatica ma un po’ tonta.
E’ difficile dire tutto ciò, per me che seguivo i concerti dei Marta sui Tubi
quando ai concerti eravamo in pochissimi illuminati e tutti con le
ugole in fiamme nel tentare di stare dietro alle devastanti apnee
liriche di Gulino, sgranando gli occhi di fronte alle extraterrene
contorsioni di Pipitone alla chitarra.
All’interno delle 11 tracce delle quali è composto l’album ci sono però
pezzi sicuramente validi ed assolutamente apprezzabili. Su tutti Tre, un punk blues al fulmicotone, introdotto da un assolo di batteria con forte eco, quasi da live, al quale segue una languida chitarra old blues ed
un cantato impostato quasi a scimmiottare i diversi cloni italiani di
Elvis degli anni d’oro. Fino a giungere ad un’esplosione pazza ed
irrefrenabile di suoni e rime velocissime come solo i Marta sui Tubi in Italia hanno saputo fare. Tra le cose belle ancora Dispari, il
pezzo scartato a Sanremo (niente, non ce la faccio a non pensare lì).
Coro gregoriano su base folk rock, ad introdurre un ritmo travolgente
ed un'orecchiabilità da filastrocca musicata che nella sua semplicità e
delicata melodia, condita da arrangiamenti da grandi occasioni, ne fanno
un pezzo di assoluto spessore che induce agevolmente allo scanzonato
fischiettio. Ancora decisamente valide ma un gradino sotto le due tracce
appena menzionate sono Il primo volo, la prima traccia dell’album, e Vorrei. Entrambe
di forte impatto emotivo e con una cura particolare degli arrangiamenti
e dei testi, hanno semmai la pecca, se di pecca si tratta, di
ammiccare troppo alla melodia della canzone leggera nazionale.
Menzione a parte la merita Vagabond Home, il primo pezzo in inglese dei Marta sui Tubi, se si esclude la cover di Tomorrow never knows dei Beatles in C’è gente che deve dormire. E’ una ballad alt folk/ blues
che per quanto denoti inevitabili lacune nella pronuncia, dimostra
delle potenzialità che la band ha fortemente incise nel proprio DNA e
che sono sicuro, curate con un certo metodo, potrebbero portare i nostri
eroi a ben più ampi orizzonti. E' questo uno dei momenti più intensi
dell’album con un finale in crescendo di fumi psichedelici che questa
volta, a differenza di Polvere sui Maiali, è ben calibrato nella collocazione e nella durata.
Non voglio fare moralismi o discorsi sull’etica nella musica, per
carità, trovo sia stupido e da stupidi farlo ora ed in questa occasione,
anche se altri saranno pronti a farlo, ne sono sicuro. Certo è che se
il prezzo da pagare, per noi fan della prima ora, per permettere ai Marta sui Tubi di aprirsi ad un pubblico più ampio, arrivare sulla bocca delle massaie o delle amate/odiate Dominique
(questa la capiscono in pochi), arrivare a vendere un buon numero di
dischi in più e permettersi un’esistenza un po’ più serena, dopo tutto
non è andata poi così male. Altri in passato hanno fatto la stessa cosa,
ed in termini di mera qualità del prodotto i Marta sui Tubi
possono essere tranquillamente considerati quelli che si sono sdoganati
meglio, quelli che hanno tradito meno il loro spirito originario e
autentico. Di questi tempi, veramente, non è poco.
Ci provo, mi spiego, mi sforzo di scrivere una recensione sull’ultimo disco dei Marta sui Tubi, Cinque, la Luna e le Spine,
senza lasciarmi condizionare, nel bene o nel male, dalla loro
recentissima apparizione all’ultimo festival della canzone italiana,
si, quello di Sanremo.
Quindi devo…
dimenticare le luci, l’orchestra, le gengive irritanti della Venier, le
lezioni di musica di Luzzatto Fegiz, lo sguardo intrigante di Giletti in
prima fila, l’eccessiva miscela di rosso ramato nella tinta di Paolo
Limiti, le domande impastate di saliva di quel simpaticone di Mollica,
le farfalline, le mummie secolari, plastificate, in sontuose pellicce in
platea, la réclame, l’HD sul canale 501, lo sdoganamento o il
tentativo di sdoganare quanto di più autentico, intimo e realmente
alternativo ed indipendente in Italia si aveva. Margaritas ante porcos
o suini che devono essere educati alle perle, questo sarebbe il
dilemma. Nel dubbio, non cerco la risposta e torno sul disco, e davvero
dimentico, una volta per tutte, ciò che è stato.
Cinque sta per una serie di cose. Il numero degli album in studio dei Marta sui Tubi
e la formazione a 5 che dura ormai da 5 anni. Annunciato come l’album
più ambizioso e sperimentale della loro carriera, l’ascolto lascia
subito impressionati per la notevole qualità della registrazione e del
missaggio che a tratti sfiora la patinata perfezione. Niente di male,
anzi. Lo metti su e l’ambiente magicamente si riempie di un suono pieno e
morbido, caldo, rassicurante. Ma, almeno per una volta, vorrei partire
dalle note dolenti per dedicare il finale alle cose migliori, perché il
mio affetto per i Marta sui Tubi è tale da voler concedere al lettore il
piacere di portare con sé ciò che mediamente rimane più impresso, le
prime righe e, generalmente, le ultime.
Parto quindi dalle noti dolenti, semplicemente i pezzi che mi sono piaciuti meno, poco, per niente. La ladra sembra più che altro una cover di una ballad di successo di John Mayer piuttosto che un pezzo di quel gruppo che inconsciamente ho sempre ritenuto la versione italica dei Violent Femmes, Grandine
che nei cori del ritornello fa esibire l’ugola di Giovanni Gulino in
performance che, sempre inconsciamente, lo collocano tra l’ultimo
Battiato e Mango. Un’occasione ghiotta per rialzare l’ “emozionometro” la dà l’ultima traccia, Polvere sui Maiali. Un blues sghembo, cantato un po’ alla Tom Waits
da Carmelo Pipitone, il genio della sei corde acustica più talentuoso
in Italia. Un'occasione che avrebbe potuto essere sfruttata meglio se
dopo una partenza più che convincente non si rinchiudesse praticamente
subito in un ridondante finale pseudo-psichedelico che considerando i
suoi 3:29 sa un po’ di coitus interruptus. Ma la cosa più imbarazzante è un'altra e si chiama Il Collezionista di vizi.
Non so quanto le due cose siano collegabili, ma ascoltandola mi sono un
po’ venute le stesse bolle sulla pelle che mi spuntarono quando
ascoltai per la prima volta “Il mio corpo che cambia” dei Litfiba.
Riconoscevo quella voce, ma mi sentivo come la ragazzina con
l’apparecchio ai denti, bruttarella ma interessante che era stata appena
tradita per la bellona simpatica ma un po’ tonta.
E’ difficile dire tutto ciò, per me che seguivo i concerti dei Marta sui Tubi
quando ai concerti eravamo in pochissimi illuminati e tutti con le
ugole in fiamme nel tentare di stare dietro alle devastanti apnee
liriche di Gulino, sgranando gli occhi di fronte alle extraterrene
contorsioni di Pipitone alla chitarra.
All’interno delle 11 tracce delle quali è composto l’album ci sono però
pezzi sicuramente validi ed assolutamente apprezzabili. Su tutti Tre, un punk blues al fulmicotone, introdotto da un assolo di batteria con forte eco, quasi da live, al quale segue una languida chitarra old blues ed
un cantato impostato quasi a scimmiottare i diversi cloni italiani di
Elvis degli anni d’oro. Fino a giungere ad un’esplosione pazza ed
irrefrenabile di suoni e rime velocissime come solo i Marta sui Tubi in Italia hanno saputo fare. Tra le cose belle ancora Dispari, il
pezzo scartato a Sanremo (niente, non ce la faccio a non pensare lì).
Coro gregoriano su base folk rock, ad introdurre un ritmo travolgente
ed un'orecchiabilità da filastrocca musicata che nella sua semplicità e
delicata melodia, condita da arrangiamenti da grandi occasioni, ne fanno
un pezzo di assoluto spessore che induce agevolmente allo scanzonato
fischiettio. Ancora decisamente valide ma un gradino sotto le due tracce
appena menzionate sono Il primo volo, la prima traccia dell’album, e Vorrei. Entrambe
di forte impatto emotivo e con una cura particolare degli arrangiamenti
e dei testi, hanno semmai la pecca, se di pecca si tratta, di
ammiccare troppo alla melodia della canzone leggera nazionale.
Menzione a parte la merita Vagabond Home, il primo pezzo in inglese dei Marta sui Tubi, se si esclude la cover di Tomorrow never knows dei Beatles in C’è gente che deve dormire. E’ una ballad alt folk/ blues
che per quanto denoti inevitabili lacune nella pronuncia, dimostra
delle potenzialità che la band ha fortemente incise nel proprio DNA e
che sono sicuro, curate con un certo metodo, potrebbero portare i nostri
eroi a ben più ampi orizzonti. E' questo uno dei momenti più intensi
dell’album con un finale in crescendo di fumi psichedelici che questa
volta, a differenza di Polvere sui Maiali, è ben calibrato nella collocazione e nella durata.
Non voglio fare moralismi o discorsi sull’etica nella musica, per
carità, trovo sia stupido e da stupidi farlo ora ed in questa occasione,
anche se altri saranno pronti a farlo, ne sono sicuro. Certo è che se
il prezzo da pagare, per noi fan della prima ora, per permettere ai Marta sui Tubi di aprirsi ad un pubblico più ampio, arrivare sulla bocca delle massaie o delle amate/odiate Dominique
(questa la capiscono in pochi), arrivare a vendere un buon numero di
dischi in più e permettersi un’esistenza un po’ più serena, dopo tutto
non è andata poi così male. Altri in passato hanno fatto la stessa cosa,
ed in termini di mera qualità del prodotto i Marta sui Tubi
possono essere tranquillamente considerati quelli che si sono sdoganati
meglio, quelli che hanno tradito meno il loro spirito originario e
autentico. Di questi tempi, veramente, non è poco.
Granturismo - CAULONIA LIMBO YA YA (Brutture moderne, 2013)
Calypso punk - cantautori - indie rock
Si racconta che lo stesso Stalin avrebbe detto che "ci vorrebbe un Cavallaro in ogni città". L'eco di quella epica impresa avrebbe infatti raggiunto niente meno che il quartier generale del partito comunista, dopo che il rivoluzionario sindaco di Caulonia, tale Pasquale Cavallaro, nella martoriata Calabria del primo dopoguerra, si ribellò al sistema precostituito proclamando la Repubblica Rossa di Caulonia. Un'impresa epica che durò però appena una settimana, e della quale forse oggi si parla più con simpatia che con rigore storiografico. Tra i lontani discendenti di Pasquale Cavallaro c'è Claudio Cavallaro, mente, braccia e gambe della macchina Granturismo, di base in Romagna.
Il titolo dell'album è quindi un chiaro riferimento a quella particolare esperienza della storia d'Italia, riformulato probabilmente (ma è solo una mia congettura) in onore della Gris Gris Gumbo Ya Ya di Dr. John, il primo brano della carriera del venerato bluesman sciamano di New Orleans.
Dicono di aver fatto un album di "calypso punk", e per una volta, l'etichetta auto impressa ci sta proprio bene. I potenti fuzz delle chitarre, si mescolano a ritmi talvota caraibici (Vieni a dormire con me, Può darsi sia l'autunno), in ambientazioni spesso brit popdi sbocco psichedelico (la deliziosa Meraviglioso errore ricorda molto l'approccio stilistico dei Kula Shaker) altre volte in puro stile indie pop/rock albionico (Domenica), sempre comunque alla presenza di godibilissimi mash-up stilistici che ne caratterizzano la vena gaudente e priva di stretti confini dentro i quali noisamente rinchiudersi.
Caulonia Limbo Ya Ya è un album fresco, originale, dove la simpatia dell'approccio scanzonato si mescola ad uno studio ed ad una cultura musicale che sono invece scientifici ed appassionati. E' un album che ti capita di ascoltare, per caso, come tanti altri, ma che poi, a differenza di tanti tra i tanti, non la finisce più di bussare alle tue orecchie. Insomma, cose che capitano. Per fortuna.
Tracklist
01. Me ne vado al mare
02. Vieni a dormire da me
03. Meraviglioso Errore
04. Domenica
05. Canzone di parole
06. Inno della repubblica di Caulonia (mosso)
07. Può darsi sia l'autunno
08. Distanze
09. Dubbi Dubbi
10. Non essere visti
11. Inno della repubblica di Caulonia (adagio)
C'è vento forte e l'aria è carica di umidità, come spesso accade da queste parti. La puzza acida del carburante si mescola a quella nauseabonda delle alghe in putrefazione mista a salsedine e ferro arruginito. Ci sono bambini che corrono, donne che parlano, uomini che pensano. E poi c'è un uomo in particolare, sulla cinquantina, solo, con una chitarra sulle spalle e lo sguardo fisso in avanti. Non si volta, neanche per un attimo, è come un toro che ha puntato la sua preda e non sa pensare ad altro. A vederlo diresti che è furioso, e che sta viaggiando non per diletto o vacanza, ma per rimettere a posto qualcosa. Quell'uomo, capelli lunghi mossi dal vento, viso scavato, barba incolta, si chiama Cesare Basile e sta tornando nella sua Sicilia dopo anni passati altrove in Italia e non solo.
Quel viaggio non è quindi casuale per Basile, come casuale non sarà la sua nuova vita in Sicilia, a Catania, la sua Catania.
"Una terra riscopre la propria identità quando comincia a pensarsi come espressione di una cultura originale e autonoma. Quando fa della propria identità un progetto di futuro aperto. Per questo abbiamo deciso di fare dei nostri bisogni un capolavoro. Da isolati abbiamo cominciato a vederci, a parlare. Da scappati a tornare"
Con queste parole comincia il Manifesto de l'Arsenale, " una libera federazione di musicisti e di arti e mestieri della cultura che vede nel territorio siciliano un unico laboratorio di indipendenza [...] una filiera territoriale contrapposta alla necessità dell'emigrazione e della fuga".
In questo contesto fisico e di intenti è nato l'ultimo album di Cesare Basile, tra i più dotati e visionari cantautori contemporanei che ribadisce oggi il suo talento esclusivo portando la sua produzione a vertici stilistici ed emotivi che non aveva ancora toccato.
A questo punto sembra pure inutile dirlo, ma realmente ascoltando l'album ci si ritrova immersi in un mondo di sfruttati che vogliono rialzarsi, di ingiustizie da giustiziare, di umili maestranze che sudano la propria libertà, di chiodi schiacciati e di mali da scacciare. E poi c'è quell'intensità dell'interpretazione, specie nelle canzoni in siciliano stretto, quella musica che è folk, non convenzionale, spesso puro blues mediterraneo, a tratti d'avanguardia. Tutto si mescola naturalmente fino a solidificarsi in una granitica celebrazione dello spirito autentico di un artista che offre la sua anima nuda e la sua mente libera.
Cesare Basile è l'ultimo omonimo album di un artista che ha fatto una scelta netta nella propria vita, tanto quella artistica quanto quella umana. E' scappato ed è tornato. Tanti soffrono per il distacco da ciò che ci appartiene, molti soffrono perchè ciò che ci appartiene è sempre più lontano, sempre meno proprio. Pochi soffrono per riprendersi ciò che era stato ingiustamente abbandonato a se stesso. Se credete che sia impossibile ritrovare tutte queste emozioni, e altre ancora, in un semplice disco, concedetevi almeno la possibilità di esservi sbagliati.
Ulteriori notizie riguardo Cesare Basile su Urtovox e su Wikipedia.
Tracklist
1. Introduzione e sfida
2. Parangelia
3. Canzoni Addinucchiata
4. Nunzio e la Libertà”
5. Marilitta carni
6. Minni spartuti
7. L’Orvu
8. Caminanti
9. Lettera di Woody Guthrie al giudice Thayer
10. Sotto i colpi di mezzi favori.