My Bloody Valentine - MBV (autoproduzione - 2013)
Shoegaze - Dreampop - Noise
È uscito l'ultimo album dei My Bloody Valentine. Di
già? E si perché 22 anni (tanto è passato da Loveless,
l'ultimo LP) possono essere un'eternità come un battito d'ali di farfalla se
parliamo del gruppo che ha cambiato i connotati alla musica tradizionale in una
maniera tanto innovativa e codificante che tanti, troppi (?), in questi anni ti
hanno più o meno fatto pensare a loro.
Prima di cominciare lasciatemi dire che se siete alla ricerca
di una recensione che soddisfi le ansie da tecnocrati della musica o volete
trastullarvi con iperboli che incastrino sublimemente espressioni come
shoegazing , stratificazioni, riverberi, saturazioni, fuzz,
muri di suono, chitarre noise, dream pop, e via dicendo,
andate pure a leggervi le migliaia di recensioni che inonderanno a breve
l'orbe webbaqueo, io cercherò semplicemente di trasmettere ciò che
questo disco mi ha lasciato, dicendovi, possibilmente, se mi è piaciuto e nel
caso quanto.
Non è tracotanza banalotta o smania di voler essere diversi e
migliori, ma semplice invito a spogliarsi della ruggine che 22 anni di
ininterrotta pioggia acida hanno sedimentato nelle nostre orecchie e nella
nostra testa. Se è vero che l’attesa del piacere è essa stessa piacere,
e anche vero che nel frattempo il mito ha alimentato un mostro, con parziale
verità anche per il viceversa. E si perché se fino al 2012 (concedo il beneficio
del dubbio all’appena cominciato 2013) la musica più in voga “in-certi ambienti”
si è rifatta in modo abominevole al prototipo sviluppato da band come My Bloody Valentine e
The Jesus and Mary
Chain ciò è dovuto, ma è una mia opinione, più alla ricerca
spasmodica dell’inesplorato rivendibile come esclusiva sciccheria che
ad altro. Non che le suddette band non abbiano rappresentato delle pietre
miliari nella storia della musica e nella mia personale formazione musicale. Ma
neanche giusto sarebbe idolatrare fino alla fanatica adorazione chi, alla fine,
ha semplicemente fatto, più che onestamente e molto meglio di altri, il proprio
mestiere di artista che, per definizione, deve metterci del suo.
I 25 anni di interrotta carriera dei My Bloody Valentine
continuano oggi con l’uscita, scoordinata, originale ma un tantino
schizofrenica, di questo MBV. Quando molti ormai avevano perso
ogni speranza il 2 febbraio 2013
Shields e soci annunciano via social network (e si, oggi usa così)
l’uscita, dalla mezzanotte, del loro nuovo album, l’atteso, più volte annunciato
e poi sempre rimandato, follow up di Loveless.
Mentre il sottoscritto dormiva beatamente, che tanto il giorno dopo sarebbe
stato lo stesso, migliaia di fan aspettano la mezzanotte sul portale più
sanguinoso del pop mondiale per scaricare e ascoltare prima di tutti l’ottava
meraviglia dell’umanità. Il sito va in tilt, crasha a ripetizione
lasciando molte bocche asciutte e tanti sogni turbati. Davanti ad un muffin ai
mirtilli e un ottimo cappuccino con tripla schiuma, comodamente seduto, tre
giorni dopo arriva anche il mio turno.
Tutto d’un fiato allora, il cappuccino. Poi comincio
seriamente l’ascolto, che si riferisce necessariamente alla versione digitale,
l’unica ad oggi rilasciata e considerando l’attendibilità delle dichiarazioni
della band, l’unico dato sicuro e incontrovertibile.
Se l’idea è di porsi in scia per dare un seguito a Loveless,
la prima traccia, She found now, spiazza un po’. Il magma sonoro è
lento, ruvido, più sporco e molto meno decifrabile di quanto avviene mediamente
nel suddetto capolavoro. Per quanto la melodia sia riconoscibile e
apprezzabile, non c’è quell’immediata empatia che l’assuefazione ai suoni di
Loveless
avrebbe richiesto. Cosa che in parte accade con la successiva Only
Tomorrow. Potente e dal piglio più vivace e deciso, sebbene sempre sepolta
da una nube tossica di rumore in bassa fedeltà (che fatica non dire
noise), ricorda il passato senza necessariamente ricalcarlo
pedissequamente. Un primo vero segnale di vita nuova lo si ha con la tripletta
Is this and yes/ If I am/ New you. Organetto e vellutata drum
machine a fare da tappeto ai lamenti da sirena di Bilinda Butcher
(Is this and yes), vaneggiamenti elettronici su melodie
celestiali e ritmi sgonfi e sfibrati (If I am) un travolgente passo
techno pop/hip pop (New you) passeranno probabilmente alla storia come
il momento più pop del dream dei My Bloody Valentine.
In another way è la chitarra di Tom
Morello dei Rage against the
machine che ti appare in sogno a comunicarti il nuovo sodalizio
amoroso con Satomi Matsuzaki, la voce nip-pop dei
Deerhoof. Un sogno
che viene bruscamente interrotto dal rave party scatenato da
Nothing is con il suo loop di magnifico e pulsante fracasso,
sempre uguale a se stesso eppure maledettamente necessario e dalla confusa e
caotica (per alcuni un pregio, non per me) Wonder 2. Un mix perfetto,
ex cathedra, tra sogno e rumore è ancora ben espresso in Who sees
you.
Ho sempre ritrovato nel suono dei My Bloody Valentine un
lato più duro e oscuro ed uno più sognante e mieloso che nel corso degli anni ha
raggiunto quell’equilibrio perfetto nella miscela che gli ha resi unici.
MBV,
nei suoi variegati momenti, estremizza queste due facce rompendo in parte
l’incantesimo del suddetto canone di perfezione alla ricerca di qualcosa che non
venisse percepito come banale ripetizione o tombale autocelebrazione.
Quanto
l’esperimento sia effettivamente riuscito lo dirà il tempo e l’eventuale
susseguirsi degli ascolti. Sta di fatto che i MBV, quantomeno, hanno finalmente
placato le ansie di chi ha aspettato tanto. Se la pretesa di qualità e quindi
la soddisfazione dovesse essere proporzionata al tempo dell’attesa, saremmo
autorizzati a sentirci davvero delusi. Preso invece per quello che è, sic et
simpliciter, MBV,
è un album valido, onesto, difficile per certi versi, ma lascia alla fine
piacevolmente rinfrancati. In tanti hanno fatto quello che Shields
e soci hanno teorizzato anni fa, ma quando il maestro scende (o sale?)
nuovamente in campo, accorgersi che sia tutta un’altra musica, è rassicurante e
rende finalmente giustizia a chi le scarpe le fissava non per vanità, ma per
cambiare il destino delle cose.