La cantina dalle uova d'oro
Un appassionante viaggio "à rebours", un po' immaginario, un po' reale, a bordo di un polveroso minivan vintage, dal Delta (-blues) del Mississippi ai fatiscenti e roboanti garage (-rock) di Akron, Ohio, passando per i templi sacri del rock & roll e della soul music. È la parabola musicale in continua mutazione di Dan Auerbach e Patrick Carney, al secolo Black Keys
I Black Keys sono oggi probabilmente il duo blues rock più famoso d'America. Dopo il recente scioglimento dei White Stripes, sono rimasti probabilmente gli unici a rappresentare ancora ai massimi livelli commerciali quel discorso musicale, scarno ed essenziale, legato solamente (quanto meno da un punto di vista "iconoclastico") a una voce, una chitarra elettrica e una batteria.
Behind the scenes
La storia dei Black Keys, musicalmente parlando, comincia nel 2002. Siamo ad Akron, Ohio. Due squattrinati e scanzonati ragazzini, amici da sempre, dopo aver abbandonato l'università fanno, spesso insieme, dei lavoretti saltuari per sbarcare il lunario. Finché il caso, o meglio, la casualità, non porta i due amici a esibirsi involontariamente da soli nella cantina-studio di registrazione (o "vorrebbe tanto essere tale") dello stesso Patrick. La clamorosa "sola" rifilata a Dan dai ragazzi ingaggiati per accompagnarlo nel suo primo tentativo di incidere qualcosa si rivela infatti la favolosa e magica svolta che vale un sogno, finora soltanto fantasticato, nonostante i dieci anni di attività. Pochi mesi dopo quella prima jam sassion casalinga nasceva infatti The Big Come Up, primo capitolo della loro già copiosa e variegata discografia.
Una sconfinata passione tramandatagli dal padre per la chitarra e il blues, quello vecchio, quello sacro, quello benedetto dalle acque sante del Delta del Mississippi (dai padri fondatori quali Freddie Spruell, Ishman Bracey e Son House, fino ai più recenti Junior Kimbrough, Mississippi Fred Mc Dowell e R.L. Burnside), Dan. Una naturale predilezione per il post-punk di reynoldsiana catalogazione (dai concittadini Devo ai Gang Of Four), una batteria e un mini-studio di registrazione per hobby, Patrick. Un desiderio comune di esprimersi con la musica e calarsi in uno stile già esploso nel recente passato (Black Rebel Motorcycle Club, Greenhornes, Detroit Cobras, Bantam Rooster, Soledad Brothers, Jon Spencer Blues Explosion) e che vigorosamente sta riemergendo in quegli anni (White Stripes, Jet, The Von Bondies, The Kills). Il desiderio, lussurioso, di vedere innestati gli inviolabili semi del blues sacro che fu degli avi all'interno di rullate frenetiche, stonate e sgonfie, "schitarrate" debordanti, sudore e rumore propri del dannato rock, quello più duro, quello meno "roll". Deturpare e violentare il blues con ambientazioni visive e sonore in bassa fedeltà non doveva più essere roba da anonimi ragazzini chiusi in bui garage. E così è stato.
Il blues-rock aveva pescato (e continua a farlo senza alcuna soluzione di continuità) direttamente dalle note di quel blues, già elettrificato, geograficamente e convenzionalmente riferito alla zona di Chicago, che fu, tra gli altri, di Muddy Waters e Buddy Guy. Le potenzialità e i profumi di quella musica furono adattati e fusi con l'energia purificatrice e assordante di amplificatori valvolari fumanti e chiassosi, comunque ricondotta a un kòsmos sonoro quando registrata in studio (sarebbe una lista di lunghezza siderale, mi limito quindi a citare dei punti di riferimento nel genere, con la doverosa premessa che questi nomi sfuggono a una sola, banale, classificazione, ovverosia Cream, Lonnie Mack, Zz Top, e poi ancora Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Stevie Ray Vaughan, Rolling Stones). Una nuova leva di "revivalisti" del blues, di molto successivi ai blues rocker appena menzionati (siamo grosso modo nei primi anni 90), pesca ancora più indietro, per arrivare in un certo qual modo ancora più avanti... più avanti, più avanti, perfetto, arrivati, siamo nel garage. I Soledad Brothers e Jon Spencer con la sua mitica band "di blues esplosivo" oltre ai primi White Stripes e ai Greenhornes sono tra i principali esponenti di questo movimento garage blues.
Ecco allora scoprire che il delta blues, quello fatto prevalentemente di chitarre "sliding" metalliche arroventate dal sole dei campi del sud degli States e suonate con oscillanti bottleneck indossati a mo' di anelli ortopedici, può sposarsi ottimamente con quella prepotente e scomposta forza rock che è principale caratteristica del garage, nella sua accezione più ampia da un punto di vista tanto cronologico quanto dei caratteri fondanti. Per garage-rock generalmente si intende quella speciale deriva del rock che intorno ai primi anni 60, quasi come una sorta di primordiale forma di reality show, diede forza e lustro alla imperfezione sonora e all'"amatorialità" di certe rock band, che di tali caratteristiche fecero il loro punto di forza. Riprodurre in studio e dal vivo quelle sonorità da presa diretta, quegli echi e quei riverberi, quelle batterie rimbombanti, quei plettri incidentalmente strusciati sulle corde amplificate a presagire maliziosamente il rumore tronfio del riff che sta per concretizzarsi, quei fischi di amplificatore che d'un tratto, da elementi di disturbo vengono promossi a elementi di musicalità. Questo è il garage del rock. Chiunque abbia mai assistito a esibizioni di gruppi rock in tali contesti ha sicuramente ben presente la scena.
E questo è, molto probabilmente, il backgroud emotivo di Dan Auerbach e Patrick Carney, quello che ha influenzato la maggior parte della loro produzione artistica, quanto meno quella che da The Big Come Up (2002) arriva ad Attack And Release (2008). Perché poi comincia davvero tutta un'altra storia.
Il periodo "delta garage"
Le (s)fortunate circostanze che portarono Dan e Patrick a registrare, con tecnologie e atteggiamento assolutamente lo-fi, nello scantinato di Patrick, furono apprezzate dalla Alive Records, giovane label locale, che con un budget modestissimo decise di dare un'opportunità e un minimo di promozione a questi volenterosi e impolverati ragazzini. The Big Come Up (2002) è sicuramente l'album più grezzo e meno patinato della loro carriera, ma è allo stesso tempo un sentito tributo alle radici delta blues alle quali i primi Black Keys si rifanno palesemente. Non è un caso se i primi due brani dell'album, "Busted" e "Do The Rump", siano due reinterpretazioni di due capolavori di R.L. Burnside ("Skinny Woman") e Junior Kimbrough, al quale ultimo tra l'altro verrà dedicato un intero e fenomenale Ep nel 2006 (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough). Rispetto alle versioni originali c'è tanta più energia, elettricità e volume. Solo il cantato sembra ancora rifarsi fedelmente alle ugole d'ebano che furono. Nell'album è presente anche una ruvida cover di "She Said She Said" dei Beatles, perché un po' di puzza di garage in effetti c'era pure in "Revolver", e non solo lì, se è vero come è vero che antesignani del garage sono comunemente ritenuti i Remains, che dei Beatles aprirono, non a caso, numerosissimi concerti negli Stati Uniti.
La voce di Dan, in tutte e tredici le tracce, sembra registrata negli anni 60 ed è calda e intensa, assolutamente credibile nel ruolo che interpreta. "I'll Be Your Man" è il primo brano al cento per cento Black Keys presente nell'album (e quindi nella loro intera produzione discografica). È fresco, quasi ballabile, con ambientazioni R&B e soul che ritroveremo con maggiore intensità in futuro (soprattutto in Brothers). È il brano con l'ingrato compito di trainare una carretta che, almeno in quegli anni, stenta ad avere un seguito di rilievo, quel seguito che in realtà questo album già meriterebbe. Ma si sa, quante band fanno dell'ottima musica che viene però alla luce solo quando quella meno bella, ma più commerciale, si afferma. Il numero preciso non lo conosciamo, ma sappiamo per certo che tra queste band ci sono i Black Keys.
The Big Come Up è quindi l'allodola in attesa del suo specchio, dove tre reinterpretazioni di classici della tradizione blues (ancora la sempreverde "Leavin Trunk"), il rock and roll di "Yearnin", le energetiche staffilate al fulmicotone di "Heavy Soul" e le sperimentazioni blues-space-hip hop dell'ultima traccia, "240 Years Before Your Time", assistiamo alla prima esplosione di quel geniale ordigno che, come impareremo presto a capire, deflagra in modo sempre diverso a seconda della superficie sulla quale è adagiato.
Behind the scenes
La storia dei Black Keys, musicalmente parlando, comincia nel 2002. Siamo ad Akron, Ohio. Due squattrinati e scanzonati ragazzini, amici da sempre, dopo aver abbandonato l'università fanno, spesso insieme, dei lavoretti saltuari per sbarcare il lunario. Finché il caso, o meglio, la casualità, non porta i due amici a esibirsi involontariamente da soli nella cantina-studio di registrazione (o "vorrebbe tanto essere tale") dello stesso Patrick. La clamorosa "sola" rifilata a Dan dai ragazzi ingaggiati per accompagnarlo nel suo primo tentativo di incidere qualcosa si rivela infatti la favolosa e magica svolta che vale un sogno, finora soltanto fantasticato, nonostante i dieci anni di attività. Pochi mesi dopo quella prima jam sassion casalinga nasceva infatti The Big Come Up, primo capitolo della loro già copiosa e variegata discografia.
Una sconfinata passione tramandatagli dal padre per la chitarra e il blues, quello vecchio, quello sacro, quello benedetto dalle acque sante del Delta del Mississippi (dai padri fondatori quali Freddie Spruell, Ishman Bracey e Son House, fino ai più recenti Junior Kimbrough, Mississippi Fred Mc Dowell e R.L. Burnside), Dan. Una naturale predilezione per il post-punk di reynoldsiana catalogazione (dai concittadini Devo ai Gang Of Four), una batteria e un mini-studio di registrazione per hobby, Patrick. Un desiderio comune di esprimersi con la musica e calarsi in uno stile già esploso nel recente passato (Black Rebel Motorcycle Club, Greenhornes, Detroit Cobras, Bantam Rooster, Soledad Brothers, Jon Spencer Blues Explosion) e che vigorosamente sta riemergendo in quegli anni (White Stripes, Jet, The Von Bondies, The Kills). Il desiderio, lussurioso, di vedere innestati gli inviolabili semi del blues sacro che fu degli avi all'interno di rullate frenetiche, stonate e sgonfie, "schitarrate" debordanti, sudore e rumore propri del dannato rock, quello più duro, quello meno "roll". Deturpare e violentare il blues con ambientazioni visive e sonore in bassa fedeltà non doveva più essere roba da anonimi ragazzini chiusi in bui garage. E così è stato.
Il blues-rock aveva pescato (e continua a farlo senza alcuna soluzione di continuità) direttamente dalle note di quel blues, già elettrificato, geograficamente e convenzionalmente riferito alla zona di Chicago, che fu, tra gli altri, di Muddy Waters e Buddy Guy. Le potenzialità e i profumi di quella musica furono adattati e fusi con l'energia purificatrice e assordante di amplificatori valvolari fumanti e chiassosi, comunque ricondotta a un kòsmos sonoro quando registrata in studio (sarebbe una lista di lunghezza siderale, mi limito quindi a citare dei punti di riferimento nel genere, con la doverosa premessa che questi nomi sfuggono a una sola, banale, classificazione, ovverosia Cream, Lonnie Mack, Zz Top, e poi ancora Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Stevie Ray Vaughan, Rolling Stones). Una nuova leva di "revivalisti" del blues, di molto successivi ai blues rocker appena menzionati (siamo grosso modo nei primi anni 90), pesca ancora più indietro, per arrivare in un certo qual modo ancora più avanti... più avanti, più avanti, perfetto, arrivati, siamo nel garage. I Soledad Brothers e Jon Spencer con la sua mitica band "di blues esplosivo" oltre ai primi White Stripes e ai Greenhornes sono tra i principali esponenti di questo movimento garage blues.
Ecco allora scoprire che il delta blues, quello fatto prevalentemente di chitarre "sliding" metalliche arroventate dal sole dei campi del sud degli States e suonate con oscillanti bottleneck indossati a mo' di anelli ortopedici, può sposarsi ottimamente con quella prepotente e scomposta forza rock che è principale caratteristica del garage, nella sua accezione più ampia da un punto di vista tanto cronologico quanto dei caratteri fondanti. Per garage-rock generalmente si intende quella speciale deriva del rock che intorno ai primi anni 60, quasi come una sorta di primordiale forma di reality show, diede forza e lustro alla imperfezione sonora e all'"amatorialità" di certe rock band, che di tali caratteristiche fecero il loro punto di forza. Riprodurre in studio e dal vivo quelle sonorità da presa diretta, quegli echi e quei riverberi, quelle batterie rimbombanti, quei plettri incidentalmente strusciati sulle corde amplificate a presagire maliziosamente il rumore tronfio del riff che sta per concretizzarsi, quei fischi di amplificatore che d'un tratto, da elementi di disturbo vengono promossi a elementi di musicalità. Questo è il garage del rock. Chiunque abbia mai assistito a esibizioni di gruppi rock in tali contesti ha sicuramente ben presente la scena.
E questo è, molto probabilmente, il backgroud emotivo di Dan Auerbach e Patrick Carney, quello che ha influenzato la maggior parte della loro produzione artistica, quanto meno quella che da The Big Come Up (2002) arriva ad Attack And Release (2008). Perché poi comincia davvero tutta un'altra storia.
Il periodo "delta garage"
Le (s)fortunate circostanze che portarono Dan e Patrick a registrare, con tecnologie e atteggiamento assolutamente lo-fi, nello scantinato di Patrick, furono apprezzate dalla Alive Records, giovane label locale, che con un budget modestissimo decise di dare un'opportunità e un minimo di promozione a questi volenterosi e impolverati ragazzini. The Big Come Up (2002) è sicuramente l'album più grezzo e meno patinato della loro carriera, ma è allo stesso tempo un sentito tributo alle radici delta blues alle quali i primi Black Keys si rifanno palesemente. Non è un caso se i primi due brani dell'album, "Busted" e "Do The Rump", siano due reinterpretazioni di due capolavori di R.L. Burnside ("Skinny Woman") e Junior Kimbrough, al quale ultimo tra l'altro verrà dedicato un intero e fenomenale Ep nel 2006 (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough). Rispetto alle versioni originali c'è tanta più energia, elettricità e volume. Solo il cantato sembra ancora rifarsi fedelmente alle ugole d'ebano che furono. Nell'album è presente anche una ruvida cover di "She Said She Said" dei Beatles, perché un po' di puzza di garage in effetti c'era pure in "Revolver", e non solo lì, se è vero come è vero che antesignani del garage sono comunemente ritenuti i Remains, che dei Beatles aprirono, non a caso, numerosissimi concerti negli Stati Uniti.
La voce di Dan, in tutte e tredici le tracce, sembra registrata negli anni 60 ed è calda e intensa, assolutamente credibile nel ruolo che interpreta. "I'll Be Your Man" è il primo brano al cento per cento Black Keys presente nell'album (e quindi nella loro intera produzione discografica). È fresco, quasi ballabile, con ambientazioni R&B e soul che ritroveremo con maggiore intensità in futuro (soprattutto in Brothers). È il brano con l'ingrato compito di trainare una carretta che, almeno in quegli anni, stenta ad avere un seguito di rilievo, quel seguito che in realtà questo album già meriterebbe. Ma si sa, quante band fanno dell'ottima musica che viene però alla luce solo quando quella meno bella, ma più commerciale, si afferma. Il numero preciso non lo conosciamo, ma sappiamo per certo che tra queste band ci sono i Black Keys.
The Big Come Up è quindi l'allodola in attesa del suo specchio, dove tre reinterpretazioni di classici della tradizione blues (ancora la sempreverde "Leavin Trunk"), il rock and roll di "Yearnin", le energetiche staffilate al fulmicotone di "Heavy Soul" e le sperimentazioni blues-space-hip hop dell'ultima traccia, "240 Years Before Your Time", assistiamo alla prima esplosione di quel geniale ordigno che, come impareremo presto a capire, deflagra in modo sempre diverso a seconda della superficie sulla quale è adagiato.
Appena un anno dopo, Thickfreakness (2003) segna il debutto per una piccola ma importante label quale la Fat Possum. Nonostante poco sembra sia cambiato rispetto al disco d'esordio, si nota una maggiore influenza soul, soprattutto nel cantato di Auerbach. Uno dei pezzi più belli e intensi dell'album è infatti una cover di Richard Berry ("Have Love Will Travel"), tra i maggiori esponenti del cosiddetto doo-wop soul, dove l'R&B incontra e si fonde con il soul in modo leggero e corale. Lo spirito di Junior Kimbrough aleggia ancora prepotentemente nella loro produzione e viene suggellato qui dall'ennesima loro magistrale reinterpretazione di un suo classico, "Everywhere I Go", quel pezzo che immagini a farti compagnia, seduto su una sedia dondolante a ritmo, mentre il vento caldo del tramonto ti asciuga il sudore di una intera giornata di lavoro nei campi. Il capolavoro.
Il sipario lo alza però la title track, che mette subito le cose in chiaro. Questo è un album di blues rumoroso, quello lento ma detonante. In giro di musica del genere se ne sente già, ma forse non proprio in termini di così fedeli ed espliciti riferimenti al delta blues (specie nel ritmo e nel cantato). Se la successiva "Hard Row" (così come anche "Hurt Like Mine") ci porta dalle parti del primo omonimo White Stripes, "Set You Free", musicalmente parlando, è un chiaro riferimento all'"arancia esplosiva" di Jon Spencer. Potente e convulsiva, nel cantato resta però fedele alla tradizione, come del resto accade sempre nel corso dell'intero album. Una menzione la merita pure "If You See Me", perché se non altro ci preannuncia quello che succederà con le prossime produzioni: una leggera sterzata verso un blues-rock più classico, stile Cream, Blind Faith o Grand Funk Railroad.
La cosa che realmente fa però la differenza in Thickfreakness è il primo serio lavoro di marketing attorno alla band da parte della Fat Possum. I due talentuosi ragazzi escono così definitivamente fuori dagli scantinati di Akron e iniziano ad aprire concerti importanti (Jon Spencer Blues Explosion), ad avere un proprio piccolo tour e a far parlare di sé in modo convincente i media di settore che perlopiù ne sottolineano le forti similitudini con i contemporanei White Stripes. Purché se ne parli.
“Rubber Factory” e l’approdo a un blues rock classico
Nonostante un estenuante tour che porta Dan e Patrick a esibirsi su numerosi palchi importanti e a cancellare molte date del tour europeo perché totalmente spremuti, i due continuano a lavorare al nuovo album, il primo a non essere più registrato nello scantinato di Patrick, molto banalmente perché Patrick cambia casa. La ricerca di un nuovo posto dove registrare porta i due ad allestire uno studio di registrazione in una fabbrica di pneumatici in disuso, sempre ad Akron. Il nome dell’album, sempre su Fat Possum, così come la stessa copertina, sono quindi una rivelazione di questo curioso retroscena: Rubber Factory (2004).
Nonostante le premesse, Rubber Factory risulta essere molto più fresco, veloce e rock dei due album precedenti. Dal delta blues si passa, per la prima volta con una certa organicità, a un più classico blues-rock. A parte infatti la prima, stupenda, “When The Lights Go Out”, che sembra fare da collante con il recentissimo passato delta garage, il disco è, almeno nella prima parte, un tripudio di veloci e classici riff stile Cream, Jimi Hendrix (che spessissimo sembra essere emulato pure nella voce) e Free di “All Right Now”. Questa ventata di “gioia” rispetto ai precedenti tristi lamenti dei lavoratori del Mississippi apre le porte alle prime vendite a doppi zeri della band, alle apparizioni in tv e radio mainstream del globo e a decine di importanti commercial. Sì assapora così il primo vero successo, ne parlano (quasi) tutti.
I brani che segnano questa piccola svolta sono “10 A.M. Automatic”, “Just Couldn’t Tie Me Down” (che sembra suonata e cantata da Muddy Waters in persona) e “The Desperate Man”.Il brano che però riesce a vivere di vita propria e ad avere un importante seguito, richiamando l’attenzione sull’intero album è “Girl Is On My Mind”, dichiaratamente ispirato a “Shot Down” dei mitici Sonics, antesignani anche loro, neanche a dirlo, del garage-rock. È questo il brano più rock e travolgente del disco. Un pezzo che sa stare nelle orecchie senza che necessariamente chiare e specifiche influenze garage, blues, soul o country vengano alla mente, seppure ci siano tutte.
Poi arriva “The Lenghts”, la prima ballad mai partorita sinora. Dolce e malinconica, una steel guitar e voce accompagnati da una batteria discreta, in punta di piedi, che segna il giro di boa dell’album. La seconda parte ha invece il consueto sapore roots revival, con un po’ di blues, di country e di rock; ritroviamo due favolose re-interpretazioni (dire cover sarebbe molto riduttivo) di “Act Nice And Gentle” dei Kinks e “Grown so Ugly” di Robert Pete Williams. Un crogiolo di idee e di suoni, fino ad arrivare all’ultima incantevole traccia il cui titolo sa un po’ di confessione psicanalitica, “Till I Get My Way”. Un misto di R&B, soul e noise come solo da queste parti sanno fare bene.
“Magic Potion” e il passaggio alle major discografiche
Arriviamo così al 2006 quando i Black Keys sono ormai un duo affermato al quale cominciano ad arrivare succulente offerte da importanti label. Ragion per cui, esauriti gli oneri contrattuali con la Fat Possum, alla quale comunque concedono il delizioso Ep dedicato interamente a Junior Kimbrough (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough, nel quale spicca l’intensa e struggente versione di “Meet Me In The City”) i due passano alla Nonesuch della famiglia Warner, l’importante major della quale ancora oggi fanno orgogliosamente parte.
Cambia l’etichetta, ma non sembra cambiare altro. Il “nuovo” discorso cominciato con Rubber Factory continua infatti senza soluzione di continuità in Magic Potion (2006), il primo Lp per Nonesuch. Tanto blues-rock classico, ma molto entusiasmo in meno. Magic Potion, infatti, è probabilmente l’album che suscita meno entusiasmi dell’intera loro carriera. Scontato e ripetitivo, non sembra togliere o aggiungere niente al loro camaleontico cammino, stazionando dalle parti del blues-rock più emulato. I due appaiono stanchi e sotto pressione. Meritano comunque una menzione, perché dignitosamente sopra la media dell’album, “Just Got To Be” e “Your Touch”, con i loro riff di chitarra assordanti e affilati e i loro simpatici ed efficaci video. “Black Door” prova anch’esso a porre rimedio all’emorragia di idee a vitalità che si stava consumando. Ma vi riesce a stento.
Arriviamo così al 2006 quando i Black Keys sono ormai un duo affermato al quale cominciano ad arrivare succulente offerte da importanti label. Ragion per cui, esauriti gli oneri contrattuali con la Fat Possum, alla quale comunque concedono il delizioso Ep dedicato interamente a Junior Kimbrough (Chulahoma: The Songs Of Junior Kimbrough, nel quale spicca l’intensa e struggente versione di “Meet Me In The City”) i due passano alla Nonesuch della famiglia Warner, l’importante major della quale ancora oggi fanno orgogliosamente parte.
Cambia l’etichetta, ma non sembra cambiare altro. Il “nuovo” discorso cominciato con Rubber Factory continua infatti senza soluzione di continuità in Magic Potion (2006), il primo Lp per Nonesuch. Tanto blues-rock classico, ma molto entusiasmo in meno. Magic Potion, infatti, è probabilmente l’album che suscita meno entusiasmi dell’intera loro carriera. Scontato e ripetitivo, non sembra togliere o aggiungere niente al loro camaleontico cammino, stazionando dalle parti del blues-rock più emulato. I due appaiono stanchi e sotto pressione. Meritano comunque una menzione, perché dignitosamente sopra la media dell’album, “Just Got To Be” e “Your Touch”, con i loro riff di chitarra assordanti e affilati e i loro simpatici ed efficaci video. “Black Door” prova anch’esso a porre rimedio all’emorragia di idee a vitalità che si stava consumando. Ma vi riesce a stento.
Un discreto passo in avanti i Black Keys lo compiono con Attack And Release (2008), dove se non altro i due recuperano quella serenità che permette loro di ritrovare un po’ di verve, passione e fantasia, qualità che in Magic Potion sembravano completamente esaurite. Il disco, infatti, mostra maggiore personalità e grinta, e sperimenta in alcuni punti (il basso, banjo, cori e tastiere di “Psychotic Times” o la drum machine e gli effetti di “Remember When (Side A)”) nuove sonorità che vanno oltre il classico, esclusivo connubio chitarra e batteria. Ma il pezzo che scalda davvero il corpo e l’anima è la magnifica “I Got Mine”. Qui il suono che viene in mente è il primo hard-rock che fu di Led Zeppelin, Uriah Heep, Deep Purple, Steppenwolf e compagnia meravigliosa, sempre con le dovute sfumature blueseggianti. Jethro Tull in versione tribale è l’alchimia suggerita da “Same Old Thing” che con i suoi flauti e congas risulta essere l’azzardo più insolente che il duo si è concesso finora (e tutto sommato non è andata neanche così male).
L’ultima traccia, “Things Ain’t Like They Used to Be”, spiazza un po’ tutti. Un lento a metà strada tra i Bon Jovi più melensi e i Calexico di “Hot Rail”. Forse è solo un avvertimento per ciò che succederà a breve con le prossime produzioni.
Intanto la fama continua a crescere, così come i conti in banca e l’esposizione mediatica dei due. Inevitabili e puntuali arrivano così i primi dissidi tra Dan e Patrick che portano nel 2009 i Black Keys a prendersi una pausa di riflessione che conduce a quei classici progetti paralleli che sanno tanto di valvola di sfogo.
Auerbach dà alla luce un album solista di discreta fattura (Keep It Hid), mentre Carney suona la batteria in un discreto disco indie-pop/wave con un nuovo gruppo, i Drummer, per la sua piccola label (la Audio Eagle Records) dal titolo Feel Good Together. Tutti lavori più che dignitosi, per carità, ma ormai è fin troppo chiaro che le “uova d’oro” vengono prodotte solo se i due stanno insieme. La reunion avviene così poco dopo e in modo alquanto singolare, con un progetto che lo stesso anno (2009) vede i Black Keys collaborare con una schiera di artisti della migliore scena hip-hop/rap americana.
Il prodotto finito, Blackroc, è di piacevolissima riuscita, a testimoniare ancora una volta il fatto che nel cambiamento i due ritrovano sempre nuova e positiva linfa. “On The Vista”, “Stay Off The Fucking Flowers” e “What You Do To Me” i pezzi da incorniciare.
“Brothers” e la svolta funky-soul
Nel 2010 arriva quello che molto probabilmente è il prodotto migliore, perché il più completo e appassionato, dell’intera carriera dei Black Keys. Viene infatti pubblicato Brothers, l’album che consacra il duo nell’Olimpo delle band più famose e apprezzate degli States e che, grazie soprattutto alla splendida e inusuale “Tighten Up”, gli permette di fare breccia ben oltre la consueta platea di fan e diventare così un fenomeno inevitabilmente mainstream. Ma questa conclusione non deve trarre in inganno. Perché Brothers è un album di ben 15 tracce che deborda in maniera fulgida ed emozionale da ogni parte. Ammicca e stordisce, incanta e risveglia. Ogni volta, ogni traccia, con originalità e malizia rinnovata. Rispetto ai primordi di The Big Come Up e Thickfreakness, le radici del blues del delta sono state pressoché completamente recise, lasciando spazio alle influenze R&B, soul e funky, solo timidamente accennate nei lavori passati, degne della migliore tradizione.
“Tighten Up”, dicevamo. Dan Auerbach ha dichiarato che fino alla fine ha provato a impedire che fosse inserita nell’album perché la sentiva troppo distante dalla loro linea artistica. Come dargli torto. Ma come dare torto a chi (il deus ex machina Danger Mouse) ha voluto che fosse comunque inserita. Fresca e leggera, introdotta da uno spensierato fischiettio, “Tigheten Up” è il soul che riabbraccia l’R&B, con tanto di tastiere dal sapore vintage a suggellarne l’amplesso.
“Everlasting Light”, la prima traccia dell’album, apre le danze. Ritmo lento e cadenzato, cantato in estensioni wonderiane e un clap clap che strizza l’occhio al gospel, tanto per non farsi mancare nulla. Quasi un funky stile colonna sonora di polizieschi anni 70 si nasconde dietro “Next Girl”, traccia cinica e accattivante che rende difficile il passaggio alla successiva, tante volte ti capita di volerla riascoltare. Per avere il rapimento definitivo, però, si deve arrivare alla traccia numero 4, “Howlin’ For You”. Un ritmo che ricorda la “My Sharona” dei The Knack e un cantato in stile hip-pop a introdurre un coro fatto apposta per essere cantato assieme ai fan in concerto.
Poi, è una parata continua di sensazioni soul e black dal groove malizioso e potente (“The Only One”, “Ten Cent Pistol”, “Too Afraid To Love You” e soprattutto le superlative “I’m Not The One” e “Never Gonna Give You Up”) interrotte solo da piccoli e pregevoli inserti del buon vecchio blues (“She’s Long Gone”) e da una esotica e tribale danza (“Sinister Kid”) e che raggiungono l’apice emozionale e l’optimum lirico nell’ultima, dolcissima e straziante ballata “These Days”.
Il nostro minivan si trova ora in Alabama, nei mitici Muscle Shoals Sound Studios. Ma il viaggio non è ancora finito.
L’arrivo a Nashville ed “El Camino”
Appena un anno infatti e il mitico minivan arriva a Nashville, patria del country-rock. Qui il duo si è ora definitivamente trasferito. Dan ha pure messo su un suo studio di registrazione, l’Easy Eye Sound Studio, dove ovviamente non poteva non nascere l’ultima, attesissima creatura.
El Camino (2011) è l’album che più di ogni altro dà l’impressione di essere stato “costruito” per vendere e per essere suonato efficacemente nei live. Ed è questo che è successo, quello che sta succedendo ancora oggi, in maniera esponenziale, a distanza di più di un anno dall’uscita del disco. Rispetto al precedente Brothers, El Camino mostra sicuramente una flessione della vena artistica e creativa, ma possiede indubbiamente una maggiore capacità di imporsi immediatamente sulle masse. Le influenze predominanti passano ora dal soul-funky al rock-rockabilly, senza però disdegnare caratteristiche del loro recente passato lasciate qui e lì, quasi a non voler essere troppo crudeli nei confronti dei fan della prima e della seconda ora. La terza ora è infatti quella di “Lonely Boy”, con l’amatoriale e trascinante ballo dello sconosciuto Derrick T. Tuggle e di “Gold On The Ceiling”, quei pezzi che arrivi a non poter più ascoltare, tanto sono trasmessi e inseriti in ogni contesto sociale. Ma almeno due o tre volte nella vita vanno ascoltati e ballati, perché meritano una intima ma smodata polluzione multi-sensoriale. Poi, per quanto ci riguarda, “il cammino” va ripreso à rebour. Perché il breve ma intenso percorso fin ora compiuto dai Black Keys regala tra le prime tappe i suoi brividi più intensi e passionali.
El Camino è questo ma è anche altro. Solo che se il salto nel rock godereccio sembra riuscito benissimo (ancora, oltre alle due precedenti, segnaliamo “Hell Of A Season”) e siamo sicuri che innumerevoli feste di giovanissimi in ogni parte del globo oggi e negli anni a venire verranno degnamente chiuse da “Lonely Boy”, allo stesso modo l’aspetto più intimo e partecipato dell'album non sembra essere riuscito nel medesimo intento. Il lato southern soul stile Marvin Gaye o The Temptations è ancora presente in brani come “Stop Stop” e “Mind Eraser”, quello garage più classico in “Money Maker”, senza però mai riuscire a rapire completamente come accadeva in Brothers, facendo tornare alla mente i fantasmi di Magic Potion, quando ardore e fantasia sembravano ormai un lontanissimo ricordo.
Una menzione particolare la merita “Little Black Submarines”, un brano magnifico dove fortunatamente ritroviamo l’energia appassionata del passato unita a una graffiante vena nostalgica. È il brano che vuole comunicare trasporto, energia e commozione, riuscendovi pienamente. Un rock “ballerino”, sempre alla Norman Greenbaum, su un tappeto stoner viene poi sperimentato, senza infamia e senza lode, in “Run Right Back”.
In generale, la musica dei Black Keys è ormai saldamente arricchita da tastiere e basso, e l’immagine sacra del power duo musicalmente autosufficiente è lasciata ormai solo alle copertine patinate e alle quotidiane interviste. Per il momento il minivan è ancora parcheggiato a Nashville. Ma c’è da scommettere che nuovi lidi saranno presto esplorati. Non ci resta che attendere curiosi.
Franz Bungaro
Nessun commento:
Posta un commento